Che rubrica scurrile. Mi chiedo come
faccia ad avere 28...ah beh lasciamo perdere. Sono solo 28.
Non so chi sia che mi abbia passato
questo titolo. A volte la gente non sa proprio più che inventarsi.
Non era meglio mettere una bella fica nuda in copertina, tipo
questa?
Ecco, bene. Adesso ho la vostra attenzione. Grazie, torniamo all'argomento del discorso.
Gli Alt J. Il gruppo più unico, più
alla moda ed alternativo del mondo. Su di loro ci eravamo già
espressi nel nostro precedente articolo in dodici volumi (che però
potete trovare in comodato cibernetico proprio qui). Insomma, gli Alt
J sono il gruppo che è riuscito a cavalcare quella “magnifica
onda” (“awesome wave”) di modaioli spocchiosi che sono gli
hipster ed a imporsi come i colossi musicali di questa nuova decade.
Il secondo album è la grande prova per capire se tutto quanto si
è detto sui ∆ fossero solo chiacchiere o se, in fondo, sotto quei
baffi levigati con sterco di struzzo, recintati sotto quei pantaloni
almeno due taglie inferiori alla misura delle gambe, si nasconda veramente
del talento.
This Is All Yours, insomma, è l'album della consacrazione o della condanna.
- Intro
- Arrival In Nara
- Nara
- Every Other Freckle
- Left Hand Free
- Garden Of England - Interlude
- Choice Kingdom
- Hunger Of The Pine
- Warm Foothills
- The Gospel Of John Hurt
- Pusher
- Bloodflood pt. II
- Leaving Nara (Bonus Track)
A mio parere, li lascia così, a metà.
Vi dico, aspettavo quest'album con
ansia. Non tanto perché volevo rovinare gli Alt J. Mi piacciono.
Quando ero adolescente e pieno di brufoli, mi capitava ogni tanto, tra una sega e l'altra, di mettermi a studiare chitarra. In quei piccoli e febbricitanti momenti creativi, mi ritrovavo a sfornare un
sacco di giri come i loro. Se avessi avuto un po' più di talento nel
falsetto e non mi fossi spaventare dall'elettronica (stupido
idealismo), a quest'ora Something Good potrebbe avere il mio nome
scritto sopra. Proprio per questo mi piacciono gli Alt J. Sono capaci di
prendere dei giri banalissimi e dargli un taglio che hanno solo loro.
Ma il merito non è del cantante Joe Newman,
che peraltro usa solo le dita perché in vita sua ha suonato solo la
classica (cosa assolutamente anomala per un musicista indie di
successo), ma neanche di Occhiali-e-Nasone Gus Unger-Hamilton, che mi ricorda tanto un
mio amico che mi propinava dall'anfetamina alla salvia divinorum e
poi all'esame prendeva 27 mentre tutti noi ci credevamo dei geni col
nostro misero 21. Il merito è di quel gran figlio di puttana di Thom Green,
che suona la batteria in una maniera del tutto sua, e del biondino idrofobo che ha mollato la band. Lui scriveva le parti
di chitarra e di basso, di che cosa sarebbero sopravvissuti gli Alt J?
Da questo punto di vista, io trovo che
non solo This Is All Yours abbiano dimostrato che gli Alt J sono sopravvissuti, ma anche che hanno avuto le palle di proporre qualcosa decisamente più maturo e meno orecchiabile.
Pene, invece, un po' di meno.
This Is All Yours è un album
decisamente più coraggioso rispetto al precedente, innanzitutto
sulla base del fatto che veri singoli non ci sono ed i pezzi girano
generalmente nell'introspezione, se non si affidano alla sola voce e
chitarra (Pusher). È un album riflessivo, che concede meno spazio alle
strizzate d'occhio. Quello che manca è un vero singolo che trascini.
La promozione ha voluto fare affidamento ai due pezzi dove gli
ammiccamenti sessuali alle fan sono più evidenti - la sciapissima e dimenticabilerrima Left Hand Free, dagli inquietanti echi sixties - e
Every Other Freckle, ma mentre la prima delle due non c'entra un
cazzo col resto dell'album e avrebbe meritato un singolo (o un ep,
che fa molto vintage e piace a certi fan), il secondo pezzo ha un
incedere troppo prevedibile, un ritornello non troppo orecchiabile ed
un momento strumentale assolutamente inutile.
Un singolo mancato è invece The Gospel of John Hurt,
che se inizialmente fa gridare al miracolo ricordando certi Radiohead
di OK Computer (ma, ahimé, si tratta solo di una voce
computerizzata), in seguito si trasforma in un vero e proprio inno da
stadio.
Un fallimento, quindi. Gli Alt J, il gruppo che ha costruito la propria immagine sullo stupore, al secondo album dimostrano di essere legati ai loro stessi cliché più di ogni altra cosa al mondo, e per di più per rilasciare un album moscio, incapace di graffiare e di comunicare, se consideriamo che i testi, rispetto all'album precedente, non hanno fatto il minimo progresso.
Un fallimento, quindi. Gli Alt J, il gruppo che ha costruito la propria immagine sullo stupore, al secondo album dimostrano di essere legati ai loro stessi cliché più di ogni altra cosa al mondo, e per di più per rilasciare un album moscio, incapace di graffiare e di comunicare, se consideriamo che i testi, rispetto all'album precedente, non hanno fatto il minimo progresso.
Resta, però, un piccolo barlume di
speranza, racchiuso proprio nei primi 4 minuti dell'album.
La intro, che quegli stupidotti di Leeds non hanno mai utilizzato per aprire i loro concerti, è un
capolavoro. Ci sono più idee in quei primi minuti che nel resto
dell'album. Perché?
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