venerdì 16 ottobre 2015

Tirando le somme - per deliziarsi le orecchie

Dal momento che non ho tempo per scrivere su questo blog, né probabilmente lo avrò nel futuro immediato, questa pagina è dedicata alle canzoni che hanno caratterizzato questo 2015. Il mio 2015.

01 - Lady (Fela Kuti)


L'afrobeat mi è caduto addosso per caso durante il mio percorso alla ricerca del funk. Dai primi esperimenti di Ginger Baker ai contemporanei Shaolin Afronauts, mi ha permesso di riscoprire la fondamentale differenza del suonare correttamente e suonare bene. D'altronde, nessun bianco è mai riuscito a far suonare tre accordi in questa maniera. Il capolavoro assoluto dell'afrobeat, directly from Nigeria.

02 - Shaolin Afronauts - Kilimanjaro



La canzone degli interpreti austrialiani era già comparsa l'anno scorso su questo blog. Poi ho scoperto che anche il resto dell'album spaccava il culo ai passeri.

03 - Bombino - Animidine


Dalla Nigeria ci spostiamo al Mali ed incontriamo una scena del tutto differente. Qui, dove il blues trae le sue origini più arcaiche, tra una fatwha e l'altra, esiste una scena tuareg dove la musica tradizionale incontra l'hard rock ed il blues. Mentre in America ed in Europa si punta al synth, in Mali si guarda ai Led Zeppelin. E Dan Auerbach esulta.

04 Mulatu Astatke - Yekatit


Mentre in Mali si ripercorrono le origini del blues, in Etiopia s'incontrano quelle del reggae, ma qui incontrano il jazz. Per ulteriori informazioni ascoltare l'album con gli Heliocentrics.

05 C'mon Tigre - Federation Tunisienne de Football


Agli italiani C'mon Tigre va il merito di avermi schiuso gli occhi verso l'Africa. Un altro modo per dire che non è necessario seguire le mode per fare della buona musica.

06 Cymbals Eat Guitars - Warning


La KEXP mi ha permesso di scoprire quante belle novità fioriscono in questi momenti. I CEG possiedono la stoffa degli At The Drive In, come se scarnificassero il sound indie per riportarlo indietro ai novanta.

07 BSBE - Mama

 
I BSBE volevo recensirli, l'anno scorso. Il loro ultimo album piace sempre di più ad ogni ascolto. Col tempo hanno imparato ad essere meno noiosi e a evitare le sviolinate pop. Più che i Jon Spencer Blues Explosions, la risposta italiana ai Black Keys di Thickfreakness.

08 Katzenjammer - Demon Kitty Rag


Ebbene sì, lo ammetto. Mi piace la musica da lindy hopper. Mi è sempre piaciuta. E mi piacciono le cose a metà, come questa. Una cantante da urlo, feromoni ed attitudine punk.

09 Cab Calloway Orchestra - The Scat Song


Parlando di lindy, e di swing, non dimentichiamoci che lo scat nasce all'incirca con questa canzone.

10 Jaco Pastorius - Come On, Come Over


Jaco è indimenticabile. Non tanto per il personalissimo, ormai copiatissimo modo di suonare. Io personalmente lo trovo noioso e stancante, alla lunga. Quel che mi piace di Jaco è che se n'è sempre fregato di fare jazz in senso stretto ed ha saputo fare scuola in ambiti diversi. Su tutti, ricordiamo che ha reso uno standard The Chicken, la canzone che Pee Wee Ellis (sassofonista dei JB's del Godfather), una canzone funk modale che di standard non ne ha né l'aspetto né l'intenzione.

11 Tryo - Desolé Pour Hier Soir


I Tryo sono dei giusti. Immaginate che dei vostri amici fricchettoni decidano di mettere su una band, imparino a suonare davvero bene e diventino famosi: a quel punto, decideranno di portare con sé tutto l'immaginario della vita del viaggiatore: saltimbanchi vari, mangiafuoco, bolas, tessuti e quant'altro avrete sempre considerato "roba carina che si spaccia come arte ma che tutto sommato non è tale" in uno spettacolo dei Tryo trova il suo posto. I Tryo sono alla portata di tutti ed in Francia, infatti, li amano.

12 Zen Circus - Viva


Lasciando perdere che la musica non è niente di che, per quanto i quattro accordoni finali hanno un che di liberatorio, questa canzone è riuscita meglio di qualsiasi altra a rappresentare tutte le mie preoccupazioni riguardo alla mia generazione. Le parole sono quelle che avrei voluto scrivere da anni, ma che non ho mai trovato.
"Viva la guerra, tanto vivi si muore". Ragazzi, mi fa venire la pelle d'oca. Gli Zen Circus hanno fotografato questo momento storico come nessun altro. Chapeu.

13 Foxhound - I Just Don't Mind


Li ho visti crescere, ho persino gareggiato con loro e suonato con loro. Ho sempre pensato che tutto sommato non fossero né dei gran musicisti, né dei gran cantanti. Cose normali, quando cerchi di farti le ossa in un ambiente così competitivo. Pensavo sempre che avrei potuto scrivere anche io i loro riff ma, a conti fatti, è come quando ci vuoi provare con una donna e non lo fai: ogni lasciata è persa. Con questo album i Foxhound hanno messo un gran colpo a segno, dimostrando personalità, carisma e, finalmente, anche una tecnica notevole. Li criticavo, eppure me li sono sempre ascoltati, e con gusto peraltro, perché senza accorgermene ero già da un pezzo loro fan. Benvenuti nella top list, compagni!

14 The White Stripes - The Air Near My Fingers


Bello riscoprire che in tutti questi anni avevo ignorato un tale capolavoro. Da cantare per ore.

15 Calexico - Fade


Hanno esordito raccontando l'America tradizionale mentre imperversava il grunge e fiorivano generi come il math ed il post rock. Così ci hanno provato anche loro, non dimenticando anche che potevano attingere anche il jazz. 

16 Essbjorn Svensson Trio - Dodge The Dodo


Per chiunque credesse che il jazz è un genere morto o perlomeno una roba retrò per giocare a fare l'intellettuale per scoparsi le studentesse del collettivo di lettere, consiglio caldamente l'ascolto degli EST. Il termine corretto sarebbe Nu-Jazz e c'è spazio per tutto, dal post rock alla drum'n bass. Basta avere quella flessibilità e quella capacità d'ascolto necessaria ad ogni buon musicista.

17 Frank Zappa - Nanook Rubs I


Probabilmente è ormai la mia canzone preferita. Ascoltare il testo per credere. Do do do do do dooooo!

18 Foals - The French Open


Peccato che i Foals abbiano abbandonato le coordinate iniziali per un indie pop di pregio ma che comunque non incide quanto vorrebbe. Questo pezzo mescola ritmiche math, dopodiché vira in maniera fluida da sonorità afro a un indie canonico e danzereccio. Purtroppo, è rimasto un esperimento isolato, tant'è che i Foals suonano senza fiati almeno da sei anni ormai.

19 James Brown - Coolbloded


Per chi se lo fosse perso, consiglio vivamente l'ascolto di Hell di James Brown, forse il suo album migliore.

Vorrei scrivere altro, ma purtroppo credo proprio di non avere tempo.

martedì 6 ottobre 2015

Jimi Hendrix - Band Of Gypsis

Dal momento che è sempre più difficile trovare questo concerto online, ci siamo presi la libertà di pubblicarlo.
Molti lo ritengono caotico ed abbozzato, ma non capiscono un cazzo. Quest'album e genio dall'inizio alla fine e buona probabilità, per certi aspetti è sicuramente il migliore del Figlio Vodoo.
Il video è già stato bloccato in 248 paesi. Pensate un po'.


domenica 30 agosto 2015

L'ennesimo post che non leggerà nessuno

Ormai questo genere di cose non le fa più nessuno.
Ma non importa.
Bastava un post su facebook, ma io sono all'antica.
Da quando ho scoperto questa canzone non sono più solo.



sabato 29 agosto 2015

Eugenio's Secret Show


Che fortuna di assistere ad un concerto "outstage" (oggi parlo Renzish) di Eugenio Cesaro! Eugenio, massì, quello in via di Gioia. Proprio lui. Sì, è vero, sarò un po' fissato, o ripetitivo, ma d'altronde le mode vanno a periodi e gli Eugenio negli ultimi tempi vanno alla grande. Qualcosa mi dice che andrà a finire che questa rubrica la chiameremo Eugenzine o Viadigioiazine. C'è un po' di sproporzione. Anche se dubito che questo sarà l'ultimo articolo su di loro.
Ad ogni modo no, scusate, mi sono sbagliato. Fortuna un cazzo. 
La fortuna esiste, ma la saggezza popolare vuole che essa aiuti gli audaci.
Ed io infatti mi sono portato dietro una chitarra, la più brutta che avevo (l'undecisimo tasto del mi cantino suona solo con lo slide) per tentare il jammone in viadigioia. Mi è andata abbastanza male. Ho beccato una serie di amiconi di vecchia data ubriachi che stavano gettando la situazione dalle parti di Manu Chao, del genere, ultimo ripiego. Quando cominci a fare cose tipo "la minore sol el vento viene, por la carretera ecc" vuol dire che sei proprio alla frutta. Inoltre, stavo facendo piuttosto cacare. Dopo un primo delicato approccio gli EIVDG sono scappati verso il ping pong. Tuttavia, Eugenio si è fatto vivo proprio mentre uno sconosciuto mi ha fatto improvvisare una canzone degli Smiths e mi ha offerto un secret show di una decina di minuti, all'ombra della stazione, per concedermi una breve anteprima del nuovo disco.
Ed ha suonato alla grande, cazzo, in mezzo a commenti del tipo "Ragazzi, ma ve la tirate troppo poco" o "Cazzo, ma sei troppo bravo" (ma su questo tempo ne ho già parlato a suo tempo: se volete, sfogliate qualche articolo più indietro e la mia opinione è messa per filo e per segno anche fin troppo nei dettagli).
Ad ogni modo, quel vecchio volpone è proprio bravo. E spontaneo. La musica gli esce direttamente da dentro. Tre accordi, ingrana il ritmo e via, a raccontare. 
Se a suo tempo avevo persino pensato di consigliargli degli ascolti, oggi, dopo averlo ascoltato nella sua dimensione personale, mi rendo conto che non ha bisogno di nessun ulteriore background musicale, perché rischierebbe solo di essere un bastone tra le ruote e compromettere il flusso creativo in cui, da un paio d'anni a questa parte, si ritrova immerso.
A volte troppa teoria può essere solo d'impaccio. L'importante per ogni musicista è trovarsi a perfetto agio col suo livello attuale. Mr Cesaro questo livello lo ha trovato e sforna canzoni come una macchinetta, tant'è che si appresta ad incidere un nuovo album.
Le due nuove canzoni che ho sentito sono molto belle e mi hanno risollevato dalla delusione che mi ha dato l'ultima incisione. Si tratta di roba alla Ho Perso, ma con un testo favolesco, una storia lunghissima piena di metafore e rimandi, con una metrica bella incalzante, sostenuta da quel groove da picchiatore della chitarra invogliante all'ancheggiamento che è un po' ormai il marchio di fabbrica della band. Una sistemata ai cori (in realtà il pezzo è ancora in fase di elaborazione) e sarà sicuramente un nuovo cavallone da battaglia per i concerti in giro per lo stivale.
Qualcosa bolle in pentola, e l'odore è buono. Secondo me la band ha trovato il suo sound, o è un passo dal farlo.

Ancora una piccola curiosità? Va bene, dai.
Vi dirò che di mezzo un grillo. Non potevo? Massì, vabbé. Facciamo di sì, e se no sarà solo l'ennesima cosa fuori luogo che ho scritto.
In bocca al lupo, ragazzi.

Wanted - Cercasi personale

La redazione ne ha le palle piene.
Abbiamo bisogno di altri recensori o questo blog dovrà chiudere per la sopravvenienza di altri impegni.
Abbiamo una trentina da album pronti ad essere ripartiti.
Mandateci i vostri amici.
Scriveteci su facebook.
Scriveteci sulla mail.

bangszine@gmail.com

"Bangszine, come Lester Bangs ma troppo tardi"

"Non siete Lester Bangs, non siete Carlo Emilio Gadda, avete dei gusti di merda e non si capisce un cazzo di quello che scrivete, bontà di Dio"

martedì 25 agosto 2015

Fortissimo 2015



La maggior parte delle riviste, o delle persone in generale, ormai ha smesso di parlare di Fortissimo. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, le persone che conosco tutt'al più hanno un ricordo nostalgico di Balla Coi Cinghiali.
Non sto a spiegarvi che cos'è Fortissimo. Vi rimando direttamente al loro sito, così potrete assumervi da soli la fatica di informarvi.
Vi dirò solo che, come hanno giustamente (e ruffianamente) rimarcato i FASK (all'anagrafe Fast Animals And The Slow Kids), Fortissimo è "il più bel festival musicale d'Italia". Forse quest'affermazione è un po' una svaccata, ma qualche buona ragione per sostenerla c'è eccome:

1) è un festival piccolo. Niente movimenti difficili, organizzazione superba, cessi puliti. Niente striscioni della Red Bull o obbligo di comprare solo le bibite dello stand che finanzia il palco. Niente bevande daa prezzi superdilatati.

2) è un festival ecosostenibile. Pur essendo in culo ai lupi c'è la differenziata divisa in quattro cassonetti diversi

3) la location è stupenda. Se la musica non vi piace, potete sempre andare a fare delle passeggiate incredibili in uno dei posti più belli d'Italia. La Francia è a due passi.

4) la selezione musicale è sempre attentissima alle ultime novità del panorama alternative italiano. Sarà che forse sono dei bravi ragazzi, sarà che si fanno pagare poco, ma c'è da dire che, nonostante le difficoltà economiche, ormai da dieci anni l'organizzazione Balla Coi Cinghiali non fa mancare la possibilità di mettere sullo stesso palco (o sugli stessi palchi) l'undeground più in vista del calderone musicale italiano.

5) Si rimorchia/si tromba. Scusate la franchezza, ma ritengo che ogni festival debba offrire anche queste forme di divertimento. Per intenderci, forse la proposta del A Night Like This di Chiaverano (TO) sarà sicuramente più dignitosa, ma vi sfido a camminare per quel campo da calcio e fare colpo su una sola persona, senza l'outfit adeguato.

6) Si mangia bene. Non dimentichiamoci che lo slogan di Balla Coi Cinghiali era "come a Woodstock ma si mangia meglio".

Ecco il mio reportage, artista per artista

Fast Animals And The Slow Kids


Bravi, anzi, bravissimi su quel palco. Che grinta, che carica! "Che bel culo" dicevano anche le mie amiche, guardando il cantante. Ma si sa, gli uomini sul palco aumentano il loro fascino. Delle donne non ne parliamo neanche. Peccato che mi sia visto solo gli ultimi dieci minuti. Giusto in tempo per sentire A cosa ci serve. Gran pezzo, però sarà che a me il riff ricorda tante delle cose ascoltate negli ultimi dieci anni, persino i Nadar Solo. Efficacissimo però. Sembrano i Verdena, solo che sono meno bravi e cantano meglio, oltre ad avere decisamente molta più voglia di vivere. Il problema dei Fast Animals è che mi danno l'idea di quella band che ha tutte le carte in regola, compreso un background musicale (grunge, Verdena, Strokes, Neurosis eccetera) tanto valido da far sembrare ogni composizione priva di una vera intuizione, se non quella del ritornello o del riffone. I motivi per cui io non riesco a comporre, a quanto pare per i FASK non sono importanti. Ecco spiegato come siano una figata dal vivo e così insipidi in studio. Da non perdere d'occhio, comunque.


Appino



Il nuovo re dell'alternative italiano? Ma neanche per scherzo, dai. Da cantautore a rocker, col nuovo disco bisogna però dire che Appino ha fatto proprio una bella svolta.
Sul palco ha suonato bene. Mi aspettavo un concerto da schifo e mi sono ritrovato a ballare come un pazzo (eccetto per i pezzi rock. Appino deve capire che come rocker ormai fa cagare da una decina d'anni): sarà che il nuovo sound più dub riesce dannatamente bene su un buon impianto live, sarà che la scelta di un chitarrista per le parti soliste è discretamente azzeccata, sarà che avrà trovato un timbro vocale più adatto all'espressività della voce, sarà che l'isola di Utopia mi è proprio piaciuta. Insomma, un ottimo concerto. Incluso anche il dessert: un abbraccio da quello stesso figlio di puttana del cantautore, incrociato per strada, forse un poco ebbro (come il sottoscritto), al mio commento: "Gran bel concerto. Non me lo aspettavo, ma mi è piaciuto."



Bombino


Noioso. Il disco però non perdetevelo, Nomad è una figata, forse persino meglio dei dischi dei Tinariwen. Sono rimasto abbastanza ipnotizzato dall'approccio personale ed estremamente "verticale" della chitarra. Inadatto, ad ogni modo, ad un festival di questo genere. Ve lo raccomando da sobri, in un auditorium, è un genere di musica che richiede attenzione ed anche pazienza, se si vuole apprezzarla a fondo. Dobbiamo ancora farci l'orecchio.


The Skints


Che suoni, ragazzi. E che supergnocca. Impressionante anche il batterista in qualità di cantante principale. Il loro è un dub fortemente europeizzato - ed infatti sono di Londra. Una formula a tre voci: cantante batterista acutissimo, nella migliore delle tradizioni jamaicane, una voce femminile sensuale (che, trall'altro, si occupa anche di suonare contemporaneamente organo, tastiera e drum machine) ed un cantante chitarrista (il fratello di lei) dalla voce più grave. Ottima presenza scenica, ottimi ritmi. Il bassista hipsterorso, poi, è un vero metronomo. Da non perdere. Peccato solo per la chitarra, precisissima ma troppo poco sentita nelle parti soliste.



Africa Unite


Per l'amor del cielo, con tutto il rispetto per Bunna e Madaski, ma ne ho le palle piene. Me li sono sentiti di striscio. Sempre bravissimi, d'altronde ormai sono una formazione storica. Fanno la loro porca figura ma, non pigliamoci in giro, stiamo parlando di una "novità" che ha ormai almeno 15 anni.


Lo Stato Sociale


Sono migliorati, ma non abbastanza. Adesso vanno a tempo. La chitarra a volte è ancora imbarazzante. Quel che mi è sembrato di capire assistendo ad un concerto degli Stato Sociale è che il loro successo si basa proprio nel portare sui grossi palchi quegli atteggiamenti che le band liceali alle prime armi solitamente devono abbandonare, come raccontare un episodio pseudoamoroso con una ragazzina fan, suonare delle parti troppo difficili per l'esecutore, saltare sempre e senza motivo per fare scena, continuare a ripetere un riff all'infinito perché il cantante si è dimenticato il testo, ballare in maniera scordinata e così via. Alle ragazze questo piace. Semplicemente perché la sincerità tira quasi quanto il denaro, in camera da letto. Eppure i Marta Sui Tubi sono sempre stati sinceri, solo che sapevano suonare. Si chiama professionalità, in fondo. Anche gli Elio E le Storie Tese sanno fare i coglioni e fanno ridere. Purtroppo questo dimostra che la maggior parte delle ragazzine italiane "impegnate" di musica non capiscono proprio una sega.
Mentre li guardavo dall'alto (dopo un po' mi sono tolto dalla ressa) mi sono reso conto che, effettivamente, almeno quattro di loro sono dei bei ragazzi, e che le prime file pullulano letteralmente di ragazzine arrapate. Ecco spiegato il mistero del successo degli Stato Sociale: ce n'è uno per tutti i gusti, c'è persino il tipo "non proprio bellino ma che ci sa fare". Fortuna che hanno dalla loro parte i testi, che ogni tanto fanno ridere o riflettere, sennò il mio giudizio sarebbe solamente negativo. Devo ammettere che mi hanno fatto sinceramente sorridere. Che desolazione, però, se penso che Sziget gli americani hanno mandato i Queens Of The Stone Age, i NOFX, i National, gli inglesi hanno mandato i Prodigy...e noi gli Stato Sociale. Diamo per scontato che per il resto del mondo, ormai, noi italiani siamo quelli che non sanno tenere il tempo.

 
Etruschi From Lakota



Sempre più in vista, sempre più fiduciosi in loro stessi. Gli Etruschi From Lakota sono una band per cui vale quanto ho detto per gli Eugenio In Via Di Gioia, con la differenza che forse la loro proposta musicale è, a mio giudizio, un po' più interessante. Il cantante strilla che è un piacere, senza stonatura, il chitarrista "malpelo" macina riff dei Wolfmother e dei Led Zeppelin a non finire, la seconda voce armonizza morbidamente il canto in italiano. Ancora giovanissimi, per cui è naturale che alcuni testi siano ancora un po' ingenui, per quanto appassionati. Tuttavia, il loro show, denso di quella goliardia tipicamente toscana che io adoro, è stato non solo simpatico, ma decisamente energico.
Co co co cornflakes!


Se dunque il prossimo anno non avete i soldi, o meglio, vostro paparino non vi passa i soldi per il Primavera, o per lo Sziget, venite a Fortissimo. Costa poco (non relativamente alla proposta, 45 € comprensivi di campeggio per tre giorni) ed è probabile che chi suona abbia la vostra età, se non di meno, e che non sia abituato ai camerini né alle groupie, tanto da permettersi di venire a prendersi una birra al bar con voi.
Se tutto questo non vi piace e preferite mantenere la distanza, perché avete bisogno che il vostro idolo non esca dalla teca di cristallo in cui l'avete rinchiuso, rimanete liberi di farlo.
Altrimenti, venite pure a Fortissimo, dove il palco ed il festival sono tutt'uno.
Vedrete, ci si diverte lo stesso. Forse, persino di più.

P.S. Non venite in troppi. Sennò poi mi rovinate il festival.

domenica 24 maggio 2015

Lago Volstok - Decorso Infausto


Amouse Bouche
L'altro dopo l'uno
Aria In Catene
In Pasto Ai Soprofiti
Cañero
 Crazy Crazy Man Only Wants To Kill Italians




Premetto che non sono un patito del noize e spesso un ascolto, neanche forzato, mi aiuta ad entrare dentro alla logica del genere. Io credo che si tratti semplicemente di un genere nato per essere proposto dal vivo. Non descriverei mai la mia esperienza di ascolto con gli Shellac come positiva, ma resto dell'idea che assistere ad un loro concerto è stata un'esperienza irriperibile. Lo stesso potrei dire per i Jesus Lizard o, volendo spostarci verso delle coordinate più pop, del Teatro degli Orrori. Il noize è un genere che nasce per il live, eppure i dischi in studio sono necessari per tirare avanti. I pezzi bisogna farli conoscere.
Ecco che quindi cerco di cambiare idea sui giovani Lago Volstok. Di loro si è detto poco e nulla, ma se n'è parlato bene. Pochi ancora i fan su facebook (siamo sui 500) nonostante qualche webzine qua e là li ha descritti come i nuovi fenomeni del noize italiano, scomodando persino paragoni con gli Zu ed altri mostri sacri. A questo punto mi sento obbligato a dover parlare di John Zorn e dei Naked City, per completare il quadro dei paragoni incomodi.
Inutile, infatti, fare riferimento alla scena jazz core internazionale.
Ad un primo ascolto il disco non mi piace. 
I Lago Volstok si presentano con un sound estremamente scarno, caustico in cui probabilmente l'approccio low fi alla qualità della registrazione incide profondamente. Power Trio, li hanno definiti (chissà che cosa ne penserebbero i Cream...). La classica formazione a la Shellac: basso con boost/fuzz suonato rigorosamente con un plettrone spesso un centimetro, chitarra quasi sempre sul distorto, batteria pestona. Il sound è opprimente, soffocante come lo smog che si accumula al ridosso delle montagne lombarde. In questo senso, titoli come Aria In Catene risultano quanto mai appropriati. La prima traccia, Amouse Bouche, riesce ad essere piuttosto esemplificativa della dichiarazione d'intenti. Se l'idea iniziale è quella di avere a che fare con certe melodie proprie del post-rock, nel giro di neanche trenta secondi, il gioco è chiaro. Siamo effettivamente dalla parti dei Dead Elephants, di quel noize un po' metallaro a cui non dispiacciono i breakdown, ma senza voce.
La prima del pezzo è carino, ma la coda è piuttosto prevedibile. Potrei che dire che questa idea è abbastanza simile a quella che mi son fatto del resto del disco. Noize ed imprevedibilità, cambi improvvisi ed inaspettati. Non sempre il gioco funziona, come nello stesso, prevedibilissimo cambio alla fine del pezzo, o verso la chiusura del secondo, L'altro dopo l'uno.
Quest'ultimo, il cui riff è palesemente plagiato da Floyd The Barber, suona come una rilettura del classico dei Nirvana in chiave cuneese.


Non che questo mi dispiaccia. Piuttosto, è quel genere di cose che mi fa avere un po' di speranza nella band. La maggior parte dei musicisti dentro al giro del noize ha un atteggiamento piuttosto prevenuto nei confronti dei Nirvana. In realtà, io credo che il confine tra i tre generi, il grunge, il noize ed un certo doom metal proprio dell'inizio degli anni 90, sia estremamente sottile (non è un caso che sia stato proprio Albini a produrre In Utero). I Nirvana hanno avuto il merito di elaborare un linguaggio estremamente istintivo, semplice e soprattutto fruibile con cui portare certe soluzioni armoniche e ritmiche proprie di questi due generi di nicchia all'attenzione della massa. Se l'intento dei Lago Volstok è proprio quello di liberarsi dalle limitazioni di un genere che, seppur offra una grande libertà di soluzioni ritmiche, è per sua natura fin troppo amelodico, vorrà dire che sarà il caso di tenerli d'occhio in futuro. Inutile quindi giocare a fare i critici che tirano fuori dal cappello i nomi più sconosciuti dei generi di nicchia, perché questi hanno orecchio ovunque. Il riff del conclusivo Crazy Crazy Man Only Wants To Kill Italians - in assoluto il pezzo più notevole del disco, potrebb'essere tranquillamente uscito da un disco dei Foo Fighters, anche se quelli che fanno capolino dopo circa due minuti sembrano di nuovo i Nirvana di Bleach/In Utero e, soprattutto, la mentalità melodico-ritmica dei Fuh.


Post Hardcore, grunge e noize s'incontrano, s'inseguono e si fondono in una per circa otto minuti, per poi adagiarsi su una coda melodica (l'idea de "la calma dopo la tempesta") e lasciare spazio all'immancabile (per quanto inutile) ghost track, ancora più casinara e chiassosa delle precedenti.
Decorso Infausto non è affatto male come esordio. Nel complesso si ha che fare con una band ancora molto fedele a certi stilemi stilistici - quelli del noize strumentale - che non osa troppo ma che mostra avere ottime capacità di controllo e di padronanza dei propri mezzi. La tendenza adolescenziale al cambio improvviso, con la rottura netta del discorso musicale e del flusso emozionale, mettendo insieme parti differenti che non hanno niente a che fare l'una con l'altra, rimane ancora uno dei limiti compositivi - ma del resto, intrinseci nelle limitatezze del genere - sui quali la band deve lavorare. I ricchi spunti non mancano. Il momento di respiro prima dell'incalzante finale di In Pasto Ai Soprofiti o l'equilibrio tra le parti di Cañero, fanno pensare ad una maturità compositiva vicina e che l'idea che tre riff ripetuti all'infinito ed un mare di rumori siano di per sé sufficienti a partorire un bel pezzo sia ormai superata.
Resto comunque dell'idea che dovrei ascoltarli su un palco, perché questo non è il genere di musica da ascoltare a casa, seduti su una sedia.
Quest'album ha già quasi un paio d'anni, ormai i tempi dovrebbero essere maturi. Fate uscire questo secondo disco e ne riparliamo.

VOTO: 65/100

Federico - chitarra
Andrea - basso
Luca - batteria 


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sabato 9 maggio 2015

C'eravamo tanto sbagliati


Vi chiederete, voi pochi lettori, voi curiosoni, voi che mi volete bene, voi che non mi sopportate, ma soprattutto voi che vi aspettavate una specie di webzine e che vi ritrovate per le mani un diario digitale mal scritto, incongruente e pieno di alti e bassi, se questa pagina, ed io che me ne occupo, abbia perso di vista i suoi obbiettivi.
Uso la prima persona, parlando a nome di “tutti”, perché credo sia giunto il momento di gettare un paio di maschere. La sincerità è sempre stata una dei pilastri fondamentali di questo spazio di riflessione e non vedo perché dovrebbe venire in meno anche in un momento difficile come questo.
Voglio infatti ammettere che la gestione Bangszine sta avendo qualche problema. Il motivo è duplice: quello principale è dovuto al mio ritrovato amore per la chitarra ed all'impegno quotidiano che tale sodalizio comporta; il secondo è dovuto ai miei collaboratori, non solo esigui, ma anche piuttosto pigri. Non riesco a stare dietro al blog come vorrei, né posso affidarlo a qualcun altro. Tra esami e chitarra, Bangszine passa in secondo piano e, sebbene i miglioramenti sulle sei corde rimangano ancora relegati ad una dimensione amatoriale, è a livello di ascolto che mi rendo conto di fare passi da gigante. Avevo dimenticato, nella mia inerzia chitarristica, quanto la comprensione approfondita di un discorso musicale fosse strettamente, forse intrinsecamente connessa all'esecuzione.
Per farvi un esempio, in tutti questi anni non sono mai riuscito a capire B.B. King, o Clapton. Li ascoltavo, sia chiaro, ma come un buon studente che debba ottemperare ai suoi compiti. Il primo mi sembrava un chitarrista assolutamente privo di appeal, il secondo un buon chitarrista rock ed un compositore piuttosto scialbo – almeno, dalla seconda metà dei settanta in poi. Solo riprendendo da capo i miei studi di blues sono riuscito a capirne la grandezza. Non potrei infatti spiegarvi i motivi a parole. Vi posso solo dire è necessario studiarne i pezzi per capirne il genio, perché un ascolto non sarà né sufficiente né indicativo. È una di quelle cose che non si possono raccontare, bisogna provarle.


http://www.gibson.com/en-us/lifestyle/lessons/lesson-of-the-day/bb-king-box-position/ 

Le vere ragioni di questo articolo, però, sono altre. Ci sono molte altre cose su cui ho avuto modo di ricredermi.
La prima, è che l'impronta data finora a questo blog non funziona affatto. Non ha senso pubblicare sporadicamente degli articoli lunghissimi, soprattutto su internet. È un modo automatico per creare disinteresse. Il lettore del web è pigro, a meno che non si parli di lui in prima persona.
I prossimi articoli saranno differenti, più concisi, almeno per quanto riguarda il piano personale. Non vi parlerò più delle donne che non me l'hanno data, ma nemmeno degli amici con cui mi fumo le canne, a meno che l'articolo non parli esclusivamente di questo. Il background delle band resterà di primaria importanza e smetterò persino di parlare di atteggiamenti da palco.
E sapete perché? Perché, volendo parafrasare gli Stato Sociale, mi sono tanto sbagliato. Non che con questo io intenda che tutto quello che ho detto finora sono stronzate. Anzi, rettifico tutto quanto e sono contento di averlo tirato fuori. Diciamo che questo periodo di inattività mi è servito e non devo lasciarmi perdere l'occasione di condividere la mia epifania.


Quello che ho assunto finora è un atteggiamento polemico, a volte forse persino bacchettone. Rileggendo alcuni articoli, mi sono reso conto di come puntualmente il discorso musicale si affievolisse e passasse in secondo piano rispetto ad un'attenzione così meticolosa rispetto agli atteggiamenti da palco da sfiorare quasi l'ossessione. Questo, sicuramente, è dovuto a dei precedenti che mi hanno fatto vivere male la città di Torino. Dopo attente riflessioni, non solo mi sono reso conto di quanto sia improduttivo e fuori luogo proporre questo genere di riflessione nel 2015, ma di quanto questo atteggiamento sia persino anacronistico.
In fin dei conti, la spacconaggine e la pressoché incapacità totale di modestia è una prerogativa tipicamente italiana. Il mio berciare è una lotta contro ai mulini a vento ed io non ho nessuna intenzione di impersonare il Don Chischiotte. Credo di essermi sbagliato, sia nel determinare una scala di valori che rappresentasse adeguatamente il mio punto di vista, sia nella modalità in cui ho tentato di trasmetterlo.
La realtà è che inutile parlare del morbo che affligge Torino, perché i torinesi non cambieranno mai. Il mio problema coi torinesi, semmai, è legato ad un fattore principalmente culturale. Non sono torinese, i torinesi non li ho mai capiti e, per quanto mi sforzi, loro continueranno a ritenermi maleducato, sfacciato e perennemente inappropriato ed io a considerarli degli ipocriti iperformali incapaci di mettere in chiaro il loro punto di vista. È inutile che io continui a battibeccare, perché la risposta a tutto questo è sempre stata a disposizione in un vecchio proverbio popolare: “posto che vai, gente che trovi”. L'atteggiamento maturo sta nell'adattarsi senza giudicare.
Nessuno vuole un padre che li giudichi dall'alto. La natura ci ha già dato una famiglia per questo e l'esperienza i nostri amici più cari.
Inutile anche indulgere sugli italiani in generale. Un buon esempio per esprimere il mio punto di vista è l'approccio dell'italiano all'internazionalità. 

La modalità con cui interagiamo col resto del mondo non è nient'altro che un riflesso di come siamo fatti. La ghettizzazione di ogni singola nazionalità, ad esempio, in una festa erasmus, o in un meeting, in questo genere di situazioni, è una tendenza naturale, sia per questioni d'appartenenza culturale che linguistica. Eppure, la motivazione che spinge ad interagire con l'esterno sembra generalmente essere diversa da paese a paese. Gli italiani, anche quelli che provengono da un substrato culturale piuttosto elevato, sembrano essere guidati solo da una motivazione: il sesso. Solo una piccolissima percentuale si perde a far conversazione per il puro piacere d'intrattenersi. I ragazzi tendono a ronzare nel loro piccolo branco, sbevazzando e buttando occhiate in giro, come se aspettassero il momento di lanciarsi sulla preda; le ragazze, specialmente quelle carine d'aspetto, tendono ad isolarsi, a fumarsi una sigaretta guardando il resto della plebaglia, sedute sul loro piccolo trono.
Principesse della festa autoinvestite. 
È ovvio che questo genere di approccio abbia generato una nomea ed uno stereotipo degli italiani all'estero come amanti estremamente attenti e passionali. Eppure, l'idea che mi sono fatto è che questo atteggiamento quasi ancestrale, o tribale, abbia le sue radici nel fatto che siamo un popolo poco evoluto dal punto vista del rapporto di coppia, ancora incapace di concepire che esista l'amicizia tra uomo e donna e che, soprattutto, due persone di sesso opposto possano interagire senza l'obbiettivo di finire in camera da letto. In un certo senso, siamo ancora dei poveri bifolchi, dei contadinotti civilizzati troppo in fretta, altrimenti non si spiegherebbero come certi atteggiamenti da scuole elementari ce le portiamo dietro fino ai trent'anni.
Nei precedenti articoli, ho fatto cenno al problema della sovrappopolazione. Senza indulgere nell'argomento, troppo copioso per questo articoletto, vorrei semplicemente fare presente che ad oggi, anno 2015, gli Italiani sono meno dell'1% della popolazione mondiale. Siamo un paesino piccolissimo. Esistono conurbazioni più popolate dell'intera Italia. Non siamo abituati a concepire quanto non abbia senso ingigantire il nostro ego in determinate situazioni. Siamo ancora troppo legati ad una dimensione rurale per capire che la nostra influenza è minima e che non ha senso gonfiarsi come palloni appena se ne ha l'occasione. Se vivessimo in un paese da 200 milioni di abitanti come gli USA, o in una città da venti milioni di abitanti, questo discorso non ce lo dovrebbero neanche spiegare, perché lo metabolizzeremmo già negli anni di crescita ed impareremo a conviverci. Essere formiche avrà forse i suoi limiti, ma permette di percepire l'immediatezza e la necessità del contatto e dell'aiuto del prossimo. È la paura che ci guida al tentativo disperato di emergere sugli altri e, a volte, persino di schiacciarli, la paura di perdere un'identità, liquefarci ed appiattirci sullo status quo.
Quello che non abbiamo capito è che noi siamo già status quo, irrimediabilmente. Facciamo tutti la spesa al supermercato, la cacca e la pipì e mangiamo nella stessa maniera: ma geneticamente siamo unici. Questo basta e avanza!
Gli italiani se la tirano e se la tireranno sempre sul palco. In un lontano futuro, chissà, forse tutti impareranno ad essere simpatici ed alla mano come gli Zen Circus. Nel frattempo, eviterò di condannare tutte queste creature che non sanno contenere il loro ego, colpevoli solo di aver ereditato un bagaglio storico troppo importante ed ingombrante, in questo Paese così splendido, affascinante ed incorreggibile ma che, ad un'attenta revisione, sembra proprio così simile un piccolo stivale puzzolente, a una vecchia scarpa consunta.


venerdì 13 marzo 2015

Non è così che si fa

Premessa ed antefatto


Torino, 13 dicembre (credo). Mi trovo in San Salvario, davanti al Carrefour che sta aperto 24 ore al giorno. Vicino all'entrata c'è un automobile dall'aria familiare che m'incuriosisce. Decido di non indagare a proposito, perché non è quel genere di giornata in cui sono in grado di farmi guidare dalla curiosità. Mi girano troppo i coglioni. Ho un concerto tra due giorni  e la mia voce fa schifo, sono sommerso dai catarri e quest'ultimo esame imprevisto mi ha arrugginito le dita. Non è così che si fa. Sono fottuto. Fuori fa freddo, piove, ho indosso un doppio cappuccio, giacca sopra e maglia pelosa sotto. Entro nel supermercato, prendo un paio di bottiglie di Nebbiolo al volo, ma alla cassa mi si parano davanti due conoscenze del liceo. Una perdita di tempo da evitare. Sono due coglionazzi che non vedo da un pezzo, ma hanno una filosofia spiccia e precisa: l'obbligo del sorriso smagliante, della sparata esplosiva. Gente che scambia la conversazione con l'agonismo, ma oggi non sono proprio in vena. Non mi hanno ancora visto in faccia, decido di non incrociare i loro sguardi. I due cappucci abbassati mi vengono in aiuto. La carta di credito mi fa saltare un po' di fila e fa il resto. 
Ciao, "amici" tamarri travestiti da universitari qualunque. Ciao, buttafuori rasato. Ciao, zingara che fai l'elemosina. Ciao, ragazzi UNICEF.
Esco, finalmente.
La macchina è ancora lì. Adesso ne comprendo la familiarità. Vicino ad essa, in piedi, c'è Emanuele Via. Eugenio Cesaro è un po' più in là, e poi c'è Lorenzo Federici. Me lo immaginavo un po' più alto, sarà l'effetto del palco. Paolo Di Gioia non c'è. Entrano in macchina, ma non me li faccio scappare. Busso al finestrino, facendo attenzione alle bottiglie che ho in mano.
“Ciao ragazzi, voi siete gli Eugenio in Via Di Gioia?” Emanuele, alla guida, mi conferma positivamente, con una calma quasi eterea, sebbene i suoi occhi siano quelli di una persona ormai irrimediabilmente in ritardo. “Piacere," rispondo io, barricato dietro ai miei cappucci "io ho scritto un articolo su di voi”. Ed è festa grande. Grida e sorrisi. Saltano fuori dalla macchina, mi scoprono il capo, cominciano a stringermi la mano, mi chiedono come mi chiamo e facciamo conoscenza. Sono belli simpatici. Mi regalano il cd ed una spilletta, fanno perfino i complimenti per come scrivo. Io non ho niente in cambio. Forse il modo migliore per ricambiare potrebb'essere entrare dentro alla macchina, afferrare i dischi dei Mumford & Sons e volarli fuori dalla finestra e sostituirli con, ad esempio, i primi due dischi degli Incubus. Invece accetto. Un regalo, alla fine, è un regalo.
La conversazione che viene fuori è piuttosto piacevole. Senza moine, senza darsi ragione a vicenda, senza autoreferenzialismo. Tutto è così semplice e spontaneo allo stesso tempo. Siamo anni luce distanti dallle situazioni del Margot, dell'Astoria o dei collettivi universitari. C'è molta umanità, ma soprattutto, disinteressata. La passione ci accomuna.
“Siamo a corto coi soldi, e pieni di debiti” Mi dice Emanuele. Il macchinone è loro, lo utilizzano per spostarsi in giro per l'Italia ed a quanto ho capito forse devono ancora finire di pagare le rate. Suonare è quindi una questione di passione, anche perché, dovendo fare leva solo sui loro mezzi, spesso, ci rimettono di tasca loro. “Però” – penso io “Che esperienze che si fanno! Chissà quante cose avranno da raccontare ai loro figli.”
Mi accorgo che la mia ammirazione non è inquinata dall'invidia e, per un attimo, i miei problemi si dissolvono e ritorno ad essere felice. Sono riuscito finalmente a dimostrare la tesi che sostenevo fin da ottobre e cioè che gli "artisti" sono persone e basta e che gli Eugenio In Via Di Gioia fanno della bella musica e dei bei concerti perché sono delle Belle persone, capaci di trasmettere i loro lati positivi (di trasmetterSI, appunto!) attraverso le loro canzoni.
Se non che, la mia gioia cessa con un sibilo, una frase, un monito, un pettegolezzo: “Certo che hai sparato a zero su tutti, nel tuo articolo, specie su Johnny Fishborn”. È la voce di Eugenio che parla. Ritorno alla realtà. Ritorno ai miei problemi. Eugenio non è mica uno stupido. Forse anch'io, un paio d'anni addietro, quand'ero un musicista in erba (in tutti i sensi) avrei potuto fare un commento analogo. Forse Eugenio è solo abituato a doversi rivolgere in questi termini in determinati ambienti, perché è così che funziona. Devi cavalcare l'onda, finché sei a a galla.
Godi fanciullo mio: stato soave, stagion lieta è cotesta
avrebbe detto il gobbo più celebre d'Italia. Ecco che mi ritrovo ad essere Leopardi (chissà, magari mi sono pure ingobbito) di fronte a tanto entusiasmo fine a sé stesso. Guardo gli Eugenio con gli occhi di un vecchio - sarà che io ho smesso di suonare quando lui ha cominciato? - o di un adulto che ha sofferto troppo. Scruto nei suoi occhi l'autocompiacimento che a suo tempo mi distrusse. Illuso di poter cambiare il mondo, mentre non stavo facendo un cazzo per migliorarmi, né stavo producendo qualcosa di buono per gli altri. Convinto che nella vita il rispetto me lo sarei guadagnato sul palco. Finché la realtà non si palesò in tutta la sua amarezza e cioé che a vent'anni, io, ero solo un povero stronzo.


 Ora, assumendo che Eugenio sia una persona intelligente, o almeno, con una sensibilità un poco più spiccata rispetto alla media, mi chiedo che diavolo avranno capito gli altri musicisti che hanno letto il mio articolo. Al mio ritorno a casa rientro con un'idea: definire meglio il mio messaggio, stendendo una classifica di cinque artisti che, a mio giudizio, hanno rappresentato il meglio delle novità torinesi dell'anno 2014. Tirando anche in ballo conoscenti ed amici, perché, il mio, vuol'essere un discorso universale. La musica emergente, così come i programmi televisivi, sono espressione del substrato sociale e culturale da cui provengono. Il mio approccio è volto alla comprensione del dilemma – senza per questo fare a meno di una bella analisi appassionata delle canzoni – che sta alla base del nostro vivere quotidiano, attraverso l'analisi delle ragioni intrinseche della musica che ne è il frutto.
 Soppesare arte e confezione, scatola e contenuto, mettere gli artisti sulla bilancia dei due aspetti per carpire meglio la psicologia e la ragione stessa della loro musica e raccontarla a loro stessi, attraverso una critica che non può che essere indirizzata alla crescita. Più mi rendo conto di quello che faccio e più mi rendo conto di quanto questo Paese abbia bisogno di persone che scrivano in questa maniera. I risultati sono stati abbastanza sconcertanti. Sono stato accusato d'essere invidioso e pieno di rimorso. Non è così che si fa. Ci vuole sportività. Le recensioni positive sono floride di visualizzazioni. Le recensioni negative, invece, vengono puntualmente represse, censurate. Su facebook c'è spazio solo per il like.
In questa classifica, invece, non c'è spazio per gli Eugenio In Via Di Gioia. Il perché ve lo spiego dopo.
Ritornando al tema delle dinamiche sociali, senza avere la pretesa di  darmi uno spessore intellettuale (per quanto ne possa conseguire: ma siete bravi anche voi a copiare un testo da un libro), ma anzi ai fini del discorso, vorrei citare le parole che il grande Aldous Huxley scrisse nel saggio Ritorno al Nuovo Mondo. Sono parole che ormai hanno una sessantina d'anni, ma che sono quantomai terribilmente attuali:

 […] al nostro sistema etico tradizionale (in esso l'individuo ha importanza primaria) si va sostituendo un'Etica Sociale. Le parole chiave di questa etica sono: adattamento, condotta socialmente orientata, appartenenza, acquisizione di capacità sociali, lavoro di squadra, vita di gruppo, lealtà di gruppo, dinamica di gruppo, creatività di gruppo. […] Secondo l'Etica Sociale aveva assolutamente torto Gesù, quando affermava che il Sabato è fatto per l'uomo. Al contrario, l'uomo è fatto per il Sabato; egli deve sacrificare le proprie idiosincrasie ereditarie, e fingere d'essere quel buon ingrediente standardizzato che gli organizzatori dell'attività di gruppo stimano perfetto per i loro fini. Quest'uomo ideale è colui che mostra “conformismo dinamico” (espressione stupenda), intensa lealtà verso il gruppo, e desiderio indomabile di subordinarsi, di appartenere.

Pensate ai miei "amici" del supermercato ed alle "conversazioni agonistiche". Pensate alla corsa quotidiana per i like su facebook. Da una parte, il desiderio di essere apprezzati, dall'altro, la disillusione perfetta di un'esigenza individualistica. Un atto fatto per emergere al di sopra degli altri, represso nel momento stesso in cui si realizza che l'intera comunità ripete esattamente lo stesso gesto: facebook diventa la piattaforma ideale dove trasformare l'impulso individuale in una conformazione allo status quo. La società liquida. Ecco perché criticavo Fishborn, ecco perché sostengo che la musica dei The Circle non è male, ma non colpisce. Quando parlo “male” di queste persone io non le ritengo stupide o incapaci, ma vittime. Vittime di una quotidianità virtuale che sopprime la critica e favorisce l'emulazione e l'adulazione: due piccoli mostri che danno beneficio immediato ma non rendono sulla lunga distanza. Impediscono di guardarsi dentro e prendere atto dei propri difetti e dei propri limiti, gli stessi che ci insegnano a crescere. Perché dico tutto questo, vi chiederete?
Pensate a Perfetto Uniformato. Pensate a Il mondo Che Avanza. Pensate a Noi Adulti. Gli Eugenio In Via Di Gioia, in parte, qualcosina di tutto questo discorso l'hanno capito, ma non vogliono farsi carico di un messaggio tanto delicato, né intendono rinunciare alla leggerezza che li contraddistingue. Il loro disco d'esordio, realizzato in fretta e furia, è troppo furbettamente leggero e poco pretenzioso, in modo da captare puntualmente l'indulgenza della critica musicale. Non è così che si fa. Quando li vidi per la prima volta ad Agosto, pensai che gli EIVDG dovessero realizzare un album al più presto. Mi sbagliavo.

Lorenzo Federici


Argh!
La Cosa Peggiore Dell'Universo
Ho Perso
Non Ancora
Ottetto Di Stabilità
Noi Adulti
Egli
Pam
Troppo Sul Seriale
Zoo Balneare (ft. Banda Fratelli)
Il Mondo Che Avanza (Ghost Track)



Hanno già detto che il punto forte di questo disco è la leggerezza di quest'album, ed in effetti è vero: ma qui da Bangszine, l'indulgenza non è di casa. Lorenzo Federici (il titolo è un piccolo tributo al membro “sfigato” il cui nome non è entrato a far parte di quello della band) è un album lungo all'incirca il doppio del precedente Ep Urrà, che era un'accozzaglia di canzoni registrate alla meglio. Circa 34 minuti, compresa la ghost track che fa finta di essere tale - non immaginatevi la pausa che prelude a Endless Nameless – semmai, può definirsi "spettrale" nel nuovo arrangiamento di All You Can Eat, qui rinominata Il Mondo Che Avanza. Sotto certi versi, questa canzone, che aveva pieno diritto ad essere collocata nell'album d'esordio, essendo il cavallo da battaglia e forse uno dei pezzi migliori della band fino ad adesso, rappresenta un tentativo di realizzare una versione più matura rispetto alla precedente. Questo, specialmente, lo si può notare nella correzione dei versi finali da non vorrebbe più avanzare a non vuole più avanzare e di la sazietà non ci basta proprio più in di sazietà non ne possiamo proprio più. Forse sarebbe il caso di soffermarsi su un'analisi più lucida del messaggio e di porre domande come "siete sicuri che questo mondo non voglia avanzare?" "sapete che l'avanzo è alla base della nostra economia, il modello di crescita esponenziale e tutto il resto?" ma quello che ci ritroviamo davanti, e che si evince da un ascolto completo del disco, è un approccio non solo leggero ai temi della quotidianità, ma forse persino un po' troppo ingenuo (tanto che quest'ingenuità trova il suo apice nell'encomio del PAM, noto per una gestione berlusconiana degli introiti). Voglio dire, non è che sono qui a colpevolizzare gli EIVDG perché fanno la spesa al PAM o all'Esselunga. Io sarò pure un povero disilluso che rischia di diventare cinico e non voglio certo cercare di pestare i piedi a chi ancora, come loro, ci crede, a qualcosa. Ciononostante, il pezzo zoppica proprio a causa del nuovo arrangiamento. Troppo ricercato per gli EIVDG, una band che dà il suo meglio quando gli arrangiamenti sono semplici ma impreziositi dalle armonie vocali (Ho perso, Argh!) e da strutture un po' più varie rispetto alle canzoni pop classiche (Zoo Balneare, Ottetto di Stabilità, Ho Perso). Quello che manca qui è proprio la forza trainante di All You Can Eat: i cori polifonici, che qui invece tendono alla monotonia ed al sintetico. (Non usate mai più un vocoder o un vocal tuner in studio, ragazzi. Vi prego. MAI.)
Un indubbio merito del disco resta, in ogni caso, l'ecletticità nel rispetto sostanziale della canzone pop folk. L'attacco, ad esempio, non è per niente male, con quella specie di canto popolare in 7/4 (il tempo prog più amato: Money, Disco Labirinto) che è Argh! e la successiva, trainante, Ho Perso, dal riuscitissimo sapore swing.

 
In seguito si passa al pop di Non Ancora, alla dimensione da osteria dell'Ottetto ed alla melensa ed ironica Noi Adulti. Il problema è che non passati neanche undici minuti e siamo già ai pezzi di riempimento. Non Ancora non sa di nulla, anche se qua e là c'è qualche barlume di lucidità, come il riferimento all'inutilità dei dottorati in questa società antimeritocratica, ma il tema è sfiorato così delicatamente che è persino difficile accorgersene. Ottetto di Stabilità ha un andamento simpatico, ma zoppicante: mi fa male la cabeza, se penso all'idea di ascoltarla due volte di fila. Noi Adulti riesce a strapparmi un sorriso, ma è un pezzo impubblicabile. Andava bene per il primo Ep, forse, ma qui stiamo giocando a fare sul serio. Chiunque voglia affacciarsi al mercato come gli Eugenio, che hanno aperto i concerti ai Marta Sui Tubi ed agli Zen Circus e che ormai suonano un po' in tutta Italia, è bene che provveda ad un'adeguata selezione dei pezzi. Altrimenti ci fa una figura di merda. L'idea, dopo aver ascoltato Argh! e Ho Perso, di avere a che fare con un artista fresco, ironico, simpatico, brillante e potenzialmente virale è del tutto prosciugata quando si arriva all'ascolto di Noi Adulti. E sapete perché? Perché gli Eugenio In Via Di Gioia sono diventati seguitissimi ancora prima di imparare a suonare seriamente, come invece hanno imparato a fare i Circle o i Maniaxxx o i Foxhound e tanti gruppi di cui ho parlato precedentemente, che ne hanno dovuta mangiare di merda prima di diventare la piccola realtà che sono adesso: eppure su un palco dell'Heineken Jammin' Festival non sfigurerebbero, perché è gente che sa suonare a dovere. Il rischio qui, è che gli Eugenio, nati troppo in fretta, pubblicati troppo in fretta, seguitissimi troppo in fretta, si ritrovino un giorno a dover dimostrare di non essere all'altezza del mondo musicale che li attende (anche De Gregori non lo era, ma erano altri tempi).
Io non voglio che ricevano un calcio in culo dal mondo musicale, perché credo che non se lo meritino, ma questo disco è una presentazione a brache calate. Credo che con un paio d'anni di studio e di buona lena la band posa cominciare a contemplare la possibilità di una seria carriera musicale: il talento c'è, sono le capacità ancora troppo amatoriali.
Alcuni testi sono buoni, a volte l'ironia funziona davvero bene. Tuttavia, non si può fare a meno di notare la tendenza a parlare troppo frequentemente delle dinamiche che ruotano attorno alla vita del musicista emergente (Ho Perso, Argh!, Egli, Troppo Sul Seriale) che, per certi versi, mi ricorda certi rapper le cui canzoni dicono "ehi guardami, sono figo, faccio freestyle sul fatto che sto facendo freestyle, faccio rap e le mie canzoni parlano tutte del fatto che canto il rap" sebbene, a differenza dei rapper, l'atteggiamento degli Eugenio fortunatamente è ironico e non autocelebrativo. Il rischio è di diventare tautologici: non si può scrivere solo del fatto che si sta scrivendo.
Pubblicizzare questo disco in giro per la penisola va bene, se si ritorna in fretta a lavorare sulla composizione. Non è tanto la teoria che manca (Eugenio è un buon cantante, Emanuele un buon tastierista), piuttosto è ora di lasciarsi le canzoncine da liceo alle spalle. Potrei spendere altre due parole per parlare anche di Troppo Sul Seriale, o del cameo della Banda Fratelli in Zoo Balneare, ma sarebbe inutile, perché credo di aver già detto tutto quello che penso. Potrei aggiungere che la band conserva un'ironia ancora in ottima forma, ma vorrei fare presente che il nonsense è arte e che non tutti possono permettersi di giocare a fare gli Elio E Le Storie Tese, né i Monthy Python, o Maccio Capatonda.


Ben venga quindi il coretto in A-/F/C/G di Caaaaaaaaaaaaane, così come l'assolo che non parte in Zoo Balneare (vai tu, no vai tu) - ma rimane ancora così tanto su cui lavorare. Troppo almeno, rispetto alle attenzioni che questo disco sta ricevendo. I Fanali Di Scorta, un'altra band torinese di stampo cabarettistico, avevano già proposto un fa un lavoro simile quasi dieci anni fa, decisamente superiore per freschezza e lucidità compositiva, non ebbero neanche un decimo della fortuna degli EIVDG.
Forse sono stati un po' troppo impietoso fino ad adesso. Tutti i fan delusi si chiederanno finora qual'è la mia posizione riguardo ad Egli.
Non nego che sia un gran pezzo: poetico, toccante e di una semplicità estremamente elegante. Se non fosse una piccola perla dentro a questo ammasso di canzonette, ci ritroveremmo davanti un altro pezzo di storia della musica italiana, ma Egli è il colpo di genio della canzone scritta in 5 minuti, dell'incastro perfetto che non vuole ritocco. Come un colpo di fulmine, che va e viene e non sai quando tornerà. Dubito che gli EIVDG ci proporranno pezzi di questo calibro in futuro, ma sono sicuro che è questa la direzione che dovrebbero prendere. Composizioni corte e semplici, linea di piano melodica, escursioni dinamiche guidate dalla vocalità. Una formula compositiva semplice e facile che potrebbe adagiarli senza troppe difficoltà sulla cima delle classifiche indie italiane per almeno i prossimi cinque anni. Volendo continuare ad essere pignolo, potrei dire che in realtà non capisco il collegamento tra la parte pseudoautobiografica all'inizio e quella del matto alla fine, ma che mi piace comunque l'accostamento delle immagini evocate, la bella metrica e la cura delle rime.


Per riassumere: Lorenzo Federici, un disco di 34 minuti con 4 pezzi riempitivi, non è un granché come inizio. Gli spunti buoni ci sono, ma Non è così che si fa, non è minimamente sufficiente a guadagnarsi il posto che si prospetta nel panorama nazionale assieme agli Zen Circus, ai Marta Sui Tubi ed ai Pan Del Diavolo, perché è proprio lì che ci ritroveremo gli Eugenio In Via Di Gioia tra qualche anno. Lo Stato Sociale ci hanno già dimostrato che è solo una questione di followers e di testi, non di qualità.
Volendo concretizzare: siamo sulla sufficienza, ma scarsina. Qui si rischia l'esame di riparazione.

VOTO: 60

Eugenio Cesaro: voce, chitarra acustica
Emanuele Via: fisarmonica, piano, cori
Paolo Via: cajon, charleston e crash senza bacchette, (occasionalmente una cassa?), cori
Lorenzo Federici: basso, titolo del disco

P.S. Per gli EIVDG: Spero ci sarà la possibilità comunque di incontrarvi e cenare con voi. Vi voglio sempre bene. Siamo io ed il tatto che non andiamo d'accordo.

martedì 3 marzo 2015

Come Rendere Digesta L'Eleganza DeNdkadente


Ho Una Fissa
Puzzle
Un Po' Esageri
Sci Desertico
Nevischio
Rilievo
Diluvio
Derek
Vivere Di Conseguenza
Alieni Tra Noi
Contro La Ragione
Inno Del Perdersi
Funeralus



Mi chiedevo quant'acqua sarebbe passata sotto ai ponti, prima che io scrivessi un pezzo sui Verdena. Parlarne mi risulta particolarmente impegnativo a causa dello zelo e della passione da me dedicata alla alla loro musica in tutti questi anni. Ma cercherò, per una volta, di stringere un po' il discorso. Mi limiterò a dire che, per quanto le canzoni dei Verdena possano risultare ostiche, melodrammatiche, depressive, bizzarre ed alle volte persino inconcludenti e prive di messaggio, farcite come sono di rime banali e scipite come “noi-poi”, “me-te”, "mai-sai", resto un fautore dell'idea che i Verdena hanno rappresentato negli ultimi quindici anni un caso unico e prezioso in questo Paese.
Questo perché i Verdena sono una band sempre moderna, autentica, sempre al passo coi tempi, capace di reinventarsi e mettersi in gioco, sorprendentemente abile nello sfruttare a suo favore la promozione delle grandi etichette industriali come la Warner pur mantenendo il controllo pressoché totale di tutte le tappe produttive della loro musica. Sono ormai tre anni che Alberto Ferrari produce e registra la musica direttamente nello studio/sale prove della band, il "pollaio”: i tempi di Valvonauta sono ormai decisamente ad anni luce di distanza. 

 
Facciamo una rapida carrellata sulla carriera della band, esattamente come avevamo fatto precedentemente per i Flaming Lips:

1997


 esce il demo, una manciata di canzoni in stile grunge di un gruppo di adolescenti (Luca, il batterista, ha all'incirca 15 anni). Le copie finiscono subito, la band si guadagna il titolo di “Nirvana Italiani”.


 1999

 
 L'esordio omonimo, prodotto da Giorgio Canali, lancia i tre poco più che maggiorenni dai barrettini di provincia ai palchi da cinquemila persone di MTV. Il sound è decisamente più pop rispetto al demotape ma non per questo privo di grinta. I testi sono inesistenti. I singoli piazzati sono ben quattro: Valvonauta, Viba, Ovunque e Dentro Sharon


2001


 Sotto la guida artistica di Manuel Agnelli, il ventitrenne Alberto Ferrari comincia a scrivere dei testi che abbiano un senso. Come Un Grande Sasso è fortemente debitore verso i Motorpsycho ed, a mio giudizio, resta il loro lavoro migliore.


2004


 Il Suicidio Del Samurai recupera le tinte grunge del primo album con la cura dei testi del secondo. Il disco funziona, il sound potrebb'essere quello definitivo, ma nell successivo album la band sconvolge completamente le carte.


2007
 
 Requiem spiazza critica e pubblico. La qualità della registrazione diminuisce a favore di un approccio più personale, seppur estremamente derivativo, per lo meno nei titoli, alla composizione ed anche l'ep Canos, del resto, sembra guardare in questo senso. La band sembra non saper più che pesci pigliare: se da una parte sembra ritrovare la cattiveria del demo (Non Prendere L'Acme Eugenio, Don Callisto), dall'altra comincia ad emergere una vena più prog (Il Gulliver, Sotto Prescrizione Del Dottor Huxley) ed elettronica (Opanopono). Il tour che ne segue prosciuga le finanze dei tre. Alberto diventa padre. Roberta si trova un impiego provvisorio.

 
2011



 Wow conquista critica e pubblica a sorpresa, nonostante sia un doppio album in cui convivono istanze musicali completamente differenti, se non opposti. La nuova musa è il Battisti di Anima Latina. Le composizioni del cantautore poggiobustonese sembrano fornire il collante necessario per fondere vecchie e nuove influenze e trovare finalmente l'approccio originale alla composizione. Il risultato è un pop eclettico e maturo che risulta in un album estremamente variegato, capace di sorprendere senza annoiare.



Che cosa aspettarci, dunque, da Endkadenz? Di sicuro, non l'ennesima rivoluzione del sound – quello era compito di Wow - e nemmeno uno sperimentalismo sfrenato. Endkadenz è il prodotto di una band ormai perfettamente consapevole delle proprie capacità, che ha imparato a guardare con ironia alla responsabilità morale e mediatica della propria immagine sul panorama musicale nazionale. La recensione di Ondarock suggerisce giustamente che i Verdena abbiano smesso di giocare a “fare i Verdena o i Motorpsycho” ed infatti è proprio così. 
Quest'album rappresenta l'ideale prosecuzione di Wow in format di album singolo. Scelta, questa, peraltro non desiderata dalla band, che si è presentata all'ora della pubblicazione con ben 112 pezzi pronti ed incapace di provvedere ad una selezione adeguata (ha smesso di esserlo, del resto, dai tempi di Requiem, che era già decisamente troppo lungo). A seguito del veto posto dalla Warner di pubblicare un album doppio, Alberto & Co hanno pensato di dividere il lavoro in due parti: Vol.1, uscito a fine gennaio, e Vol.2, che uscirà verso il mese d'Aprile. L'approccio, come ho detto, rimane quello un po' poppy di Wow, se non che il sound sembra un po' più ruvido, volutamente mirato a mantenere un certo eclettismo ma a creare stacchi di genere meno forti tra un pezzo e l'altro. Nel mantenere un format pop, senza perdere le proprie radici grunge ed alternative, sembra che i Verdena abbiano guardato stavolta, oltre che ad Anima Latina (Contro La Ragione) a certe soluzioni sonore degli ultimi Flaming Lips, affini ai tre per “rumorosità” e gusti musicali (del resto io stesso vidi i Verdena suonare come spalla ai Flaming Lips al Gru Village nel 2012). Quest'idea mi è venuta quest'idea ascoltando il riff di chitarra di Sci Desertico.
Enkadenz è un album coeso e variegato, con una identità forte ma che mantiene al tempo stesso una certa continuità con tutto quello che sono stati i Verdena precedentemente (ivi compresi i difetti, ovvero: la mancata cura delle parti vocali di Wow ed una sostanziale indifferenza al messaggio ed alla forma dei testi). Le composizioni sono tutte molto valide, seppur non sia capace di indicare una traccia che spicchi particolarmente rispetto alle altre, con la sola eccezione del singolo Un Po' Esageri, in cui la band mostra un atteggiamento ineditamente spensierato e leggero, con tanto di urletti che rimarcano il riff.


L'ascolto parte con la splendida Ho Una Fissa, che con buona probabilità rappresenterà il pezzo d'apertura dei prossimi concerti. Tracce come Puzzle e Nevischio sembrano guardare ai cantautori italiani degli anni 80 (Battisti, Rino Gaetano) sebbene le canzoni mostrino delle strutture decisamente interessanti, forse debitrici dell'eredità che hanno lasciato band come i Radiohead sulle modalità di costruzione della canzone pop del nuovo millennio. Derek sembra invece recuperare certe atmosfere chitarristiche dei primi album, anche se, in questo caso, ed anche nel resto dell'album, sembra i chitarroni costituiscano l'ossatura e non il rilievo, non essendo più la parte centrale attorno al cui ruotano le canzoni (come poteva essere, invece, per tracce come Starless, Muori Delay o la stessa Valvonauta). Forse il merito maggiore di quest'album consiste nella capacità di mettere a questa dichiarazione artistica. I Verdena, come del resto avevano già cominciato ai tempi di Wow, hanno smesso di ragionare sui riff, concentrando la loro attenzione sulle progressioni musicali e sui testi che possano accompagnarle: ed è in questo aspetto che risiede la loro maturità. È nelle strutture dei pezzi, non più nei tecnicismi chitarristici o vocali, che i Verdena mostrano tutta la loro innovatività ed il loro talento, ed è chiaro che quest'album creerà ancora una volta disturbi, confusioni e ripensamenti: gli stessi con cui ci ritroveremo a fare i conti nel prossimo Vol.2.
Nel frattempo, io mi preparo al concerto di stasera. Speriamo che i progressi siano riscontrabili anche dal vivo.