lunedì 29 settembre 2014

2004 - 2014: Dieci anni di retrospettiva di Indie Rock

Parte uno: indiependenze e tecnologia
Forse ero più felice quando avevo pochi soldi. Ricordo che mi capitava spesso di andare nei negozietti di roba usata e di trovarci quasi sempre dei piccoli tesori e...era davvero molto divertente, una specie di salto nel buio. Non sapevi che cosa cercare e se ti potevi permettere di prendere quello che alla fine ti piaceva di più. Beh, avere migliaia di dollari e poter comprare tutto il negozio non è poi emozionante”.

Kurt Cobain (da un'intervista di Kurt & Courtney, regia di Nick Broomfield)

Perché ben dieci anni di indie rock, si chiederanno alcuni. Il tempo passa puntualmente più in fretta di quanto possiamo renderci conto. Esattamente dieci anni fa, quando cominciavano ad imperversare i primi singoli degli Arctic Monkeys, erano esattamente passati dieci anni esatti dalla morte di Kurt Cobain, e molti di meno dalla fine dell'ondata di gruppi grunge che si ebbe in seguito alla sua morte. In effetti, sembrava ieri, eppure il decennio (il millennio!) nuovo era cominciato da un pezzo.
Perché solo dieci anni, si chiederanno altri, i più astuti. –Se lo chiederanno quelli che pensano ancora al termine “indie rock” nell'accezione originale del termine. Se lo chiederà, cioè, chi crede che, al giorno d'oggi, che le etichette musicali abbiano ancora un significato.
Del resto, le etichette sono etichette e vanno intese in senso lato. Di qualsiasi band si parli, anche della più improbabile o della peggiore, esistono migliaia di sfumature tali per cui non vale la pena di affannarsi a cercare per forza di catalogare il prodotto in una branca particolare. L'inclinazione alla tassonomia, però, rientra drammaticamente nella natura dell'essere umano. Se non fossero nati termini come be bop, blues, gospel, ma anche classificazioni apparentemente un po' fini a sé stesse come cool jazz, non possiamo immaginare che confusione ci sarebbe oggi, con tutta la varietà a disposizione.
In realtà, tutte queste etichette ci permettono di fruire facilmente la musica attraverso i suoi generi e di elaborarci una cultura musicale molto rapidamente, saltando da un genere all'altro, grazie alle associazioni automatiche che ci vengono fornite dai programmi a cui ci affidiamo. 
Il mondo musicale non è mai stato tecnologizzato come oggi, tant'è che dico quasi una banalità se affermo che mai come nel 2014 è stato possibile avere così tante canzoni a disposizione, e soprattutto di così tanti artisti diversi, con così poca fatica. Grazie a Spottify o le playlist di Youtube, che indico separatamente perché ormai sono in assoluto il sistema automatico di selezione musicale in circolo (senza tener conto di Last Fm, Scrobble, Grooveshark ed altri programmini intelligenti, forse persino troppo per l'ascoltatore medio), ci affidiamo così facilmente alle elaborazioni delle macchine da passare da un'artista all'altro senza neanche capire che cosa stiamo ascoltando e apprezzarne le sfumature.
Le canzoni sono lì, gratis e a portata di click, neanche di mano: altrimenti avremmo ancora la possibilità di sfogliare un libretto, leggere i testi, apprezzare un artwork come si deve: quello è diventato il privilegio, ovvero ciò che costa. Generalmente non viene percepito che, mentre da una parte l'ascoltatore crede di poter finalmente avere a che fare con un mondo della musica libero, in cui tutte – e dico tutte – le canzoni che desidera sono gratis ad una qualità, tutto sommato, più che dignitosa (ricordo che quando ero piccolo io c'erano ancora le cassette, e tutto sommato ci sono alcuni 64 kbps in cui l'audio ha una qualità migliore), in realtà egli cade in un doppio inganno: in primo luogo, spesso non è nemmeno a conoscenza di ciò che sta ascoltando, che si tratti del nome dell'artista, del nome dell'album, dell'anno o della copertina; in secondo luogo, può avere accesso solo ad artisti supportati da un'etichetta, per quanto piccola che sia, che ha i permessi e gli accordi giusti per poter caricare la musica sul database, o apparire su una playlist facilmente accessibile. Senza contare che viene meno il processo d'innamoramento, cioè diviene più difficile che per settimane intere ci fissiamo su un'artista, ne impariamo i testi, e forse non siamo nemmeno capaci di parlare d'altro: tutto questo non succede perché abbiamo troppa roba a disposizione. 
Avere migliaia di artisti a disposizione, forse, non è poi così emozionante.

Parte due: Origini dell'indie rock


La caccia alla chicca, invece, può diventare un processo lungo e complicato.  Mi è capitato di recente di perdere nei miei preziosi archivi alcune tracce di una formazione jazz chiamata Babkas, così mi sono messo a cercare una loro traccia, Bhat, una stupenda improvvisazione frigia dalle tinte psichedeliche. Sono riuscito a rintracciare il nome della traccia grazie a Last FM (che fortunatamente non ha ancora chiuso i battenti) e da lì sono stato rinviato a Deezer, che però mi permetteva solo una merdosissima anteprima da 30 secondi. Infine, sono riuscito a trovare il pezzo sul sito di Spottify, ma a patto di sorbirmi delle infami interruzioni pubblicitarie.
Tutto sommato, Spottify ha il pregio di fornire ad un prezzo tutto sommato accettabile (8 € il mese, per chi non vuole pubblicità) un archivio incredibile, tutto di artisti supportati da un'etichetta rispettabile, in modo da garantire i profitti agli artisti mediante gli ascolti. Ma Spottify ed il DIY non sono compatibili: si entra solo col tappetino rosso, non con la camicetta sgualcita. Non è il punto d'arrivo, ovvero la definitiva risoluzione dei conflitti tra major e hackers: è la vittoria dei raccomandati.
Dal 2012 Spottify si è sostituito all'ascolto di musica via mp3, eppure la maggior parte degli artisti di successo nel 2012 erano considerati "indie", cioè si poteva dire di essere ancora in piena era indie rock. Eppure, in origine, il termine significava ben altro, tanto che il contrasto tra Spottify e indie rock sembra quasi parossistico.
Vi riporto, citato pulito pulito, la definizione di indie rock secondo wikipedia:

Il termine indie è un neologismo inglese derivato dalla contrazione del termine independent, riferito ad un genere di musica (quella, appunto, delle etichette discografiche indipendenti) caratterizzato da un diverso approccio rispetto alle modalità di produzione della stessa che, quantomeno in origine, era generalmente contrapposto a quelle utilizzate nel pop mainstream (di massa) prodotto e distribuito dalle grandi corporations discografiche.
La particolarità dei gruppi e degli autori indie rock risiedeva originariamente soprattutto nell'approccio per lo più autonomo, del tipo "fai-da-te" (DIY, do it yourself) e che li portava spesso a fare tutto per conto proprio sia nella fase di registrazione, ma anche nella pubblicazione e nella distribuzione, fino all'organizzazione dei propri concerti. Artisti che, al successo delle classifiche, perlopiù preferivano una posizione più autonoma rispetto al mantenimento del pieno controllo sulla loro musica e alle scelte che ne conseguivano, preferendo etichette discografiche indipendenti (o addirittura, autoproducendosi) e relativamente low-budget che, sebbene alcune di loro avessero accordi di distribuzione con le grandi majors, operavano in modo da far conservare ai loro artisti la loro autonomia, lasciandoli liberi di esplorare suoni, strade e tematiche spesso invise al grande pubblico.

È chiaro che, facendo riferimento ad un discorso del genere, a me vengono in mente gruppi come i Jesus & Mary Chains o i My Bloody Valentine e, perché no, i primissimi Nirvana, o i Temple Of The Dog. Spingendo il ragionamento all'estremo, potrei affermare che allora anche Bob Marley era un'artista indie, lo erano i Maytals e tutta la scena reggae nascente, forse la giamaica intera negli anni sessanta, che erano indie i 13th Floor Elevators, così come i Fifty Foot Hose, i Godz ed i Fugs e, perché no, anzi: i veri campioni dell'indie erano Skip James e Robert Johnson, ma proprio che più indie non si può!


Ora, prima che spuntino complicazioni coi generi e con alcune definizioni (ad esempio, la banale distinzione tra indie ed underground) ricordo che, come dicevo prima, non vale la pena di affannarsi. Le domande aperte rimangono fondamentalmente due:
  1. Com'è mai possibile che, proprio nell'era di Spottify, che è un format di distribuzione assolutamente antitetico rispetto alle modalità del rock indipendente, l'indie rock sia il termine sulla punta della lingua di tutti?
  2. Quando, e chi ha cominciato tutto questo?
La risposta alla prima domanda è rapida e semplice. Come ho già detto prima, perché ormai il termine indie è solo un'effimera etichetta. Il significato originale (cioè l'equazione indie=indipendent) va ricercato solo nella definizione di un momento storico, di un atteggiamento diffuso più che di un genere musicale, che ebbe luogo a cavallo tra gli anni 80 (di cui la definizione, come riportato sopra).

La seconda risposta, invece, ha due nomi: Arctic Monkeys e Clap Your Hands Say Yeah.

La particolarità che li accomuna è la coincidenza, per quanto riguarda il disco d'esordio, dei due significati di indie rock finora elencati.
Entrambi escono allo scoperto con dischi autoprodotti, DYI per intenderci, ma che riscuotono in fretta consensi e plausi della critica, grazie all'inedita – almeno per il tempo – potenza di diffusione del web. Entrambi i gruppi esordiscono nel 2004. Entrambi sono responsabili di aver influenzato, da dieci anni a questa parte, almeno una dozzina di migliaia di gruppi in giro per il globo. È con loro che nasce l'indie-rock con l'accezione che ha sviluppato negli anni duemila. Estendendo il paragone anche a gruppi come Franz Ferdinand, Arcade Fire e, più alla lontana, gli Strokes, si possono evidenziare degli elementi in comune che gettano le basi per l'identificazione di un genere musicale (non mi posso dilungare a parlare di tutte le band esistente, sennò non la finisco più!):
  • una profonda radice funk, ma scarnito in favore di un atteggiamento più “da bianchi”, che si riflette nell'uso più prettamente ritmico della chitarra rispetto al pop tradizionale ed una facile tendenza alla cassa dritta in 4/4 con il charleston aperto
  • l'influenza del punk (la maggior parte dei gruppi sono venuti fuori in tenera età, si pensi ai Monkeys) e del post  punk: su tutti, Joy Division (per l'indie new wave) e Gang Of Four
  • l'influenza dei Talking Heads, soprattutto per quanto riguarda l'impostazione canora (Arcade Fire primi su tutti) e sulla mescolanza stilistica
  • l'eredità brit, ed in particolare dei Beatles, specialmente per quanto riguarda i giri armonici (del resto, parlare dell'influenza dei Beatles, in Inghilterra o America, è un po' come dire che l'America è stata scoperta da Colombo, o che l'acqua è bagnata)
Alla fine dei conti, tutto sommato, si tratta di un rock sbarazzino, disimpegnato ma non troppo, che riesce a farsi ascoltare senza impegno ma che allo stesso tempo può nascondere le sue ricercatezze. Il format perfetto. Ho notato che, nonostante la mia tendenza a ricercare ascolti oggettivamente impegnativi come possono essere, ad esempio, Stockhausen o i Naked City, spesso mi perdo ad ascoltare dischi indie tutto il giorno: le canzoni scorrono giù come bicchieri d'acqua, non ho mai dei momenti di catarsi troppo forti, eppure posso andare avanti per ore senza lamentarmi, un po' come la gente che si mette a guardare una serie e le puntate una dietro l'altra, inibendo dolcemente le funzionalità cerebrali, facendo scorrere così ore a fissare lo schermo: a volte è una perdita di tempo, ma alla maggior parte della gente piace.
Il fatto che un sacco di band, di colpo, abbiano a cominciare tutte nella stessa maniera, e per stessa maniera intendo proprio quella degli Arctic e dei CYHSY, ha oggetivato il bisogno di identificare questa musica col termine: poiché la musica è uscita fuori dal basso, attraverso la veicolazione di internet e di myspace, si è pensato di parlare di utilizzare, ancora una volta, il termine indie-rock.

Tutto comincia, dicevo, nel 2004. Facendo riferimento alle caratteristiche stilistiche finora elencate, però, sarebbe più corretto segnalare l'esordio dei Liars, They Threw Us All in a Trench and Stuck a Monument on Top, uscito nel 2001. Troppo avanti coi tempi (come del resto, nella maggior parte dei loro dischi), il disco è passato piuttosto inosservato (almeno, rispetto al successo commerciale dei gruppi finora elencati) tant'è che risulta unico nella produzione del gruppo, poi decisamente spostati su atmosfere molto più cupe ed insolite. 


Nel 2004, invece, in piena rivoluzione digitale, nello stesso anno escono Clap Your Hands Say Yeah!, e Beneath The Boardwalk, due dischi entrambi autoprodotti (il secondo era una raccolta di demo incise dai Monkeys, allora diciassetteni) che fanno impazzare il web.
In questi due dischi è già riassunta tutta l'essenza dell'indie rock e dei due artisti. Mardy Bum, Still Take You Home, Scummy (più tardi rinominata When The Sun Goes Down) diventano nei classici e di lì a un anno esce Whatever You Think I Am, That's What I'm Not e gli Arctic Monkeys volano agli olimpi delle classifiche. 


Gli Arctic hanno un sound fresco che si caratterizza per dei giri molto allegri e le chitarre ritmate, spesso combinate in modo che la ritmica risulti dalla combinazione botta e risposta (The View From Afternoon, Fake Tales Of San Francisco) delle due chitarre diverse, disposte in stereo. Alex Turner, figlio di due insegnanti e per nulla figlio d'arte, pur essendo tutt'altro che un buon chitarrista, scrive dei testi davvero sorprendenti per un giovinetto della sua età, ma soprattutto canta mettendo in fila una montagna di parole ad una velocità straordinaria, conferendo così alla band uno stile davvero unico e personale. Nel giro di due anni, dopo essere stato nominato “uomo più fico del mondo” ad appena diciott'anni, il look del gruppo rilancia l'accoppiata frangetta – plaid in giro per il globo. Gli Arctic Monkeys diventano così i Beatles del 2000, anche se del talento dei Beatles non hanno neanche l'unghia. 
I Clap Your Hands Say Yeah, invece, hanno già quasi trent'anni all'epoca del loro esordio, inoltre lo stile sguaiato di Alec Ounsworth, peraltro interessantissimo, li rende ostici al pubblico di massa. Dopo l'evidente successo del primo album, ed un seguito abbastanza decoroso (Some Loud Thunder, 2007) cadono rapidamente nel dimenticatoio, per quanto la band sopravviva ancor oggi, seppur con il solo Alec della formazione originale. La loro The Skin Of My Yellow Country Teeth, e specialmente il riff di synth iniziale, seppur vanti dieci anni, è un classico dimenticato dai più, che non ha avuto i riconoscimenti che si merita: al giorno d'oggi di band che suonano così ne esistono migliaia, sebbene all'epoca non ci aveva ancora pensato nessuno. 


Clap Your Hands Say Yeah era un gran bell'album. Non aveva la carica adolescenziale o l'orecchiabilità di Whatever I Think I Am, That's What I'm Not, ma era un album straordinariamente coeso, senza riempitivi.

Nello stesso anno escono, ma sotto etichetta, gli esordi di due altri artisti che di lì a poco riempiranno gli stadi in giro per il globo: Franz Ferdinand (Domino Records) e Funeral (Merge Records). Il primo disco determina le coordinate stilistiche di un'indie differente, più ancorato alle vecchie tradizioni, al rock e, soprattutto (e qui va evidenziato il merito di Bob Hardy , che è forse il bassista migliore delle quattro formazioni elencate) al funk discotecaro. Take Me Out sbanca le classifiche, mentre in Jacqueline si può vedere già una struttura cara a molti altri successi di lì a venire: gli accordi semplici, l'introduzione epica, il crescendo con riffone ruffiano, sostenuto dalla cassa drittissima, ritornello catchy, un bridge bello ritmato, un secondo o un terzo ritornello cantato con grande enfasi, il tutto senza neanche la preoccupazione di mettere un riff conclusivo o uno stacco finale. Sigh No More, Somebody Told Me o Reptilia sono solo pochi esempi di canzoni costruite su questo identico modello e di fatto sono state puntualmente dei successi al botteghino. 


Funeral, invece, pur essendo probabilmente il disco dell'anno, se non del decennio (se non considerassimo dischi come Kid A o Discovery), riceve l'elogio della critica, per quando il fenomeno della band esploderà solo circa cinque anni dopo. Il sound degli Arcade si distingue in particolare per la sfarzosità negli arrangiamenti – con un organico a circa dieci elementi – contrapposto all'estrema semplicità delle loro canzoni. Tuttavia, è grazie a canzoni come Tunnels e Rebellion (Lies), che la band venga associate al nuovo genere nascente, per quanto sia difficile capire com'è che un genere nasca tutto a un tratto. In realtà, io credo che succeda semplicemente quando si moltiplicano le coincidenze, come l'estrema somiglianza tra l'attacco di Rebellion (Lies) e Let The Cool Goddes Rush Away: sono troppo coeve perché gli artisti abbiano potuto copiarsi tra di loro.




Sono indubbi anche i meriti degli Strokes. A differenza degli altri gruppi finora elencati, sono riusciti a rimanere ancorati ad un sound profondamente seventies, ma è probabile che il loro sound semplice e schietto abbia influenzato le band come gli Arctic. Il loro cantante, Julian Casablancas, oltre ad essere probabilmente l'unico che riesce a mantenere le stesse prestazioni nei concerti, ha una voce baritonale che lo rende paragonabile ad un Lou Reed che sappia cantare. 


Come altri gruppi indie rock (e, in effetti, questa sembrerebbe un piccolo demerito di tutte le formazioni indie-rock in generale) la loro produzione non è riuscita a reggere il confronto con l'andare dei tempi, tanto che il buon Angles è la dimostrazione lampante che gli Strokes hanno ormai fatto il loro tempo, tant'è che hanno dovuto cedere il loro olimpo ancor prima di prendersi i riconoscimenti dovuti.

Parte tre: sfida all'ultimo disco

Il senso della vita è semplice. È la gioia di essere. Non l'ho inventato io, sto soltando passandovi quest'informazione segreta. Il motivo per cui dico che è segreta è che non la puoi toccare o … comprare … o, sai, convincere qualcuno a fare. È una condizione che devi raggiungere. E quella condizione è più facilmente raggiunta facendo qualcosa da cui sei appassionatamente ossessionato. Che sia sesso, musica, arte o … qualsiasi cazzo di cosa tu voglia che sia. Ma dev'essere ad un livello elevato, ad un livello elevato di quell'attività. Ed è quello di cui parlano i buddisti e gli induisti, è esattamente la stessa cosa. Io sto solo parafrasando il messaggio, in parole semplici.”
Eugene Hütz (Gogol Bordello), intervista allo Szieget Festival, 2011


Se generalmente, una band indie non sopravvive oltre il secondo album, allora bisognerebbe considerare gli Arctic Monkeys come un'eccezione, sebbene abbiano finito per trasformarsi in modo decisamente subdolo nel giro di tre album. Favourite Worst Nightmare, il loro secondo uscito, era un ottimo prodotto, così come pure il tentativo di buttarsi nello stoner con Josh Homme di Humbug non era male (se non fosse che cominciavano ad apparire i primi pezzi per tappare gli evidenti cali d'ispirazione) ed il collaterale passaggio della band al look con capelli lunghi e giacca di pelle.  


Suck It See, invece, era una splendida dichiarazione di onestà intellettuale, in cui il gruppo metteva da parte la propria ambizione di fare un disco che dovesse adattarsi ai trampolini da classifica per rendere omaggio ai propri idoli, mostrando finalmente di aver superato le evidenti carenze tecniche degli album precedenti e di poter fare, tutto sommato, il cazzo che voleva. È il primo album in cui Turner tira fuori dei soli dignitosi, il primo in cui la cura del suono riflette la maturità conseguita dai quattro ragazzi di Sheffield. Era anche l'album in cui tutti i membri della band hanno abbandonato, finalmente, l'atteggiamento a stereotipo (il modello frangetta, piuttosto che quello a giacca di pelle) per scegliere ognuno il look che preferiva. L'album è stato ovviamente un fiasco totale, odiato da tutti, tanto da ricacciare Alex Turner all'ennesimo di stile e, stavolta, di anima.


La risposta all'insuccesso di Suck It And See è stato AM, un album inutile, sfacciato, provocatoriamente pop (qui per intenderci si viaggia sui territori dei Maroon 5), con dei riffoni tanto apparentemente incisivi quanto inutili, trascinati fino alla noia (Do I Wanna Know?), pieno di pezzi riempitivi che non ascolterà mai nessuno e, generalmente, in cui la verve ironica che aveva caratterizzato i primi album si fa più sfacciata al punto da non risultare neanche più divertente (Why Do Only Call Me When You're High?). 


È interessante vedere, in questo senso, che soprese ci riserva il confronto dell'ultima uscita degli Arctic Monkeys con quella degli Arcade Fire e dei Franz Ferdinand, dopo circa dieci anni di indie rock.

Nel caso degli Arcade Fire, la band è riuscita a superare lo scoglio del quarto album grazie alla radice multiculturale (haitana, francese, brit ed americana) e perché ha sempre lasciato passare molti anni tra un album e l'altro, in modo da evitare pubblicazioni inutili. Funeral, come ho già detto, è stato un colpo di genio. È un album colmo di dolore, che si riflette nelle liriche e nel cantato sofferto. 


Appare evidente fin da subito l'influenza di David Byrne, tant'è che nel 2011 Sorrentino dedicherà un film proprio ad una canzone dei Talking Heads che gli AF avevano rivisitato durante la carriera, This Must Be The Place. Neon Bible, al confronto, sembra un recupero di canzoni che uscissero dal tema (No Cars Go era già nell'ep del 2003, ma non appariva su Funeral), con l'aggiunta delle altre nuove, mentre The Suburbs pare più un tentativo di soffermarsi sugli stilemi indie più consolidati, per rendere più morbido lo scoglio del terzo album. 


È pieno di buoni spunti, ma non regge il confronto con i suoi due splendidi predecessori. 


L'uscita di Reflektor, invece, ha diviso critica e pubblica. È un album coraggioso e paraculo allo stesso tempo, troppo lungo, ma con un sound rinnovato, un po' più elettronico, sicuramente capace di mantenere a galla la band ancora almeno per un paio d'anni.


L'evidenza dell'influenza dei Talking Heads di Remain In Light qui è sempre più palese, soprattutto nell'impostazione ritmica di pezzi come Reflektor ed Aferlife. La title track rimanda direttamente a Born Under Punches


La passione nel cantato è, però, intatta ed a dimostrazione del buono stato di salute della band. Quello che è cambiato, invece, è l'atteggiamento della band dal vivo. Da "homme Fatale", Win Butler è passato dai modi goffi e timidi ad essere una vera e propria rockstar: canta senza la chitarra in mano, non indossa più cravatte e abiti neri da funerale ma vestiti sgargianti, e grida così forte sui ritornelli, dando per scontata l'euforia del suo pubblico, da non rendersi neanche conto di perdere l'intonazione, come se non stesse suonando dal vivo ma elogiando il suo merito. 


Come gli Arctic, che ormai si sono incravattati e si pettinano tra un pezzo e l'altro, gli Arcade hanno oggettivato la distanza tra loro ed il pubblico, la cui assenza un tempo li rendeva così particolarmente appetibili. Alex Turner piaceva perché ricordava un ragazzo di periferia qualunque, uno di quelli che si poteva incontrare per strada, al parchetto a tirare due calci al pallone in mezzo ai figli degli immigrati o magari in mezzo alla rissa di quartiere, eppure era il fenomeno del momento. Ora che è diventato un fichetto coi capelli pieni di brillantina, rappresenta solo l'ennesima icona dello show business. 


Butler, invece, forse riuscirà a salvarsi da tutto questo perché deve condividere i suoi meriti con una band dall'organico molto più vasto, inoltre è solito farsi ritrarre con la sua felice consorte - cosa che non si addice all'icona di una rockstar - e, soprattutto, non ha i requisiti fisici di Turner. Può darsi solo che, semplicemente, con quest'ultimo disco si sia montato un po' la testa. Da questi atteggiamenti ad affermare che, citando Chris Martin dei Coldplay, “gli Arcade Fire sono la band più grande del mondo”, però, c'è ancora fortunatamente un abisso.

Il premio ultimo disco, invece, lo vincono a sorpresa i Franz Ferdinand. Privi dei meriti artistici della loro musica o personali del suo leader, Alex Kapranos, i Franz Ferdinand hanno fatto uscire una serie di album piacevoli ma solitamente piuttosto sciatti e decisamente inferiori rispetto agli AM o agli AF. Hanno sempre avuto il pubblico dalla loro parte e sono sempre stati più dichiaratamente rivolti ad una musica di consumo, senza la pretesa di voler ottenere il premio della critica per il disco dell'anno. Inoltre, dal vivo, sono decisamente i peggiori, per quanto non sembrino preoccuparsene più di tanto.
È forse quest'assenza di pretese, questo basso profilo che ha reso Right Thought Right Words Right Action, è di gran lunga superiore a quella di AM o di Reflektor, pur essendo un album che di fatto, come Random Acces Memories, sembra guardare decisamente indietro piuttosto che avanti. L'album mette in fila quattro singoli irresistibilmente cathcy uno in fila all'altro e poi prosegue, senza troppe cadute in basso, attraverso canzoni in cui la cura per la generazione del cliché perfetto è così minuziosa e sfacciata che in fin dei conti risulta decisamente più convincente all'ascolto rispetto alle pretese ed agli eccessi di Reflektor o di AM.


 A quanto pare, forse, proprio per il fatto che i Franz Ferdinand, con questa formula, abbiano partorito il loro disco migliore a dieci anni d'uscita del loro esordio, hanno dimostrato che, oggi più che mai, mettere al mondo della buona non è una questione di etichette, né di bravura, nè d'innovazione. È tutta una questione di umiltà, di mantenere il tiro giusto ed il profilo giusto, senza confondere la propria identità con il proprio personaggio (inteso come personaggio pubblico, icona), o con la propria musica, accontentandosi delle proprie radici e dei propri limiti. Ciò che hanno dimenticato gli artisti indipendenti di una volta è la responsabilità morale a capo del processo artistico: all'inizio è tutto un gioco, ma poi si diventa strumenti. Si può diventare strumenti del sistema, o del messaggio che si vuole trasmettere. I Franz Ferdinand hanno capito che non hanno un messaggio di un certo valore da trasmettere, ma hanno capito che musica vogliono suonare, e che questo è ciò che li rende felici nella vita: è un buon album perché risponde a un'esigenza interiore profonda. Inutile affannarsi a fare per forza qualcosa di nuovo o che stupisca, se sai già benissimo qual'è la tua vocazione. Se Alex Turner crede che gli Arctic Monkeys vadano salvati in un modo o nell'altro, tanto vale che anneghino e si prendano i meriti che hanno accumulato negli anni, uscendo dignitosamente dalle scene. Il cantante ha dimostrato di saperci già fare con i progetti paralleli (i Last Shadow Puppets) e nel suo splendido album solista. Che torni a stupirci, dunque. Damon Albarn ha abbandonato i Blur. Che cosa aspetta?

 
Post scriptum: indie folk

Quella dell'indie folk, per dirla tutta, è una grande stronzata. L'indie folk non esiste. Esiste però un periodo di revival, che volendo possiamo far cominciare dall'uscita del primo disco di Iron & Wine nel 2002 (anch'esso, per l'appunto, autoprodotto), in cui il cantautorato ed il folk all'attenzione del grande pubblico e che in seguito ha inglobato in parte la lezione dei Monkeys e dei CYSY. 


La generazione di artisti che ne è venuta fuori, dagli Shins ai Grizzly Bear ai Fleet Foxes ai Mumford & Sons ai Fanfarlo ai Leisure Society ai The Head & The Heart, si sono pubblicizzati principalmente tramite internet e/o canali indipendenti. Se poi volessimo cercare di indicare la nascita di un genere preciso, l'esempio migliore si può estendere solo ai Mumford & Sons: si tratta di pop easy listening, ma con una struttura ritmica martellante che è debitrice delle formule ritmiche dell'indie da classifica, con l'unica differenza che al posto di una chitarra c'è un banjo, al posto di una tastiera una tromba, e così via.


In generale si può anche rilevare come in questa new wave del folk, i ritornelli siano spesso molto epici, facilmente individuabili perché introdotti da un crescendo o da uno o due accordi sostenuti a lungo, o mediante il blocco dell'esecuzione di tutta la band per lasciare tutto lo spazio al coro, come se tutte queste band emergenti cercassero fin da subito lo stornello da stadio perfetto. In effetti il risultato è che sono venute centinaia di band, tutte brave, tutte piacevoli all'ascolto, tutte così fottutamente fatte con lo stampino.




Post post scriptum: quando l'indie si fa hipster, l'Überindie

Se c'è un gruppo, tra quelli precedentemente elencati, che sappia mettere su un coro come si deve, quello sono i Fleet Foxes. Mentre nelle canzoni dei Mumford il coro ha una funzione strumentale, nella loro musica l'armonizzazione vocale è al centro di tutto. Questa è la lezione che hanno passato al gruppo trendy del momento, che non esito a dire, finché impazzerà questa maledetta moda degli hipsters, sono gli Alt J, cioè gli . A differenza dei primi, questi hanno saputo interpretare meglio di ogni altro le esigenze stilistiche e gli atteggiamenti del suo tempo, cavalcando un'onda, ma non una qualsiasi: un'onda spettacolare (in inglese, awesome). La parola chiave per un hipster (non mi soffermerò troppo sul tema, visto che meriterebbe un articolo a parte) è una: esclusività.
Gli Alt J sono il gruppo giusto al momento giusto. Qualcuno li ha definiti geniali ed innovativi, in realtà le loro canzoni sono di una semplicità sconcertante e, di fatto, non hanno inventato niente, ma hanno saputo rinnovare sapientemente il genere indie, ormai così conosciuto da aver già elaborato i suoi primi stereotipi, in funzione dei nuovi appetiti puramente stilistici del pubblico del web. Il tutto sta, infatti, nel format e non nella sostanza. Gli Alt J, a cominciare dal nome, sono differenti da qualsiasi altro gruppo esistente sulla faccia della terra. Il loro nome è una combinazione di tasti, e guarda caso proprio ottenibile solo se si ha a disposizione un mac, della lettera greca delta, . Ovviamente, la lettera va letta come combinazione di tasti e non come lettera: il gioco sta nel fatto che "bisogna saperlo", e cioè nel rimando al fatto che, se sei una persona di un certo tipo queste cose le sai e credi che sia un gioco di parole bellissimo. Quello gli Alt J non hanno considerato è che una persona intelligente potrebbe anche pensare che chiunque debba inventarsi un nome del genere per farsi notare possa essere solamente una faccia da culo. Gli Alt J hanno il taglio con la frangetta, o il cappellino stiloso con la barba folta e ben curata, oppure il capello corto con il Rayban largo e la camicetta bianca a maniche lunghe ed il pantalone tirato su in modo da far vedere la caviglia esile ed i problemi perenni con la lavatrice che perde, insomma come vuole il nuovo stereotipo. Suonano la chitarra ed il basso come tutti gli altri gruppi, anzi forse peggio, ma mettono le dita in modo che non si capisca se stiano usando una tecnica nuova o ti stiano pigliando per il culo: in ogni caso, non come te l'aspetti. Il cantante è molto bravo, ma imposta la voce in modo da avere un timbro particolare, facendo quella che in gergo tecnico si chiama voce piccola e infondendogli un timbro quasi nasale che a volte risulta quasi fastidioso, ma che, tutto sommato, lo rende unico tra centinaia di migliaia di cantanti. Il tastierista suona uno xilofonino, la batteria nei dischi è elettronica, dal vivo è suonata (la drum machine è troppo mainstream) e così via. Tuttavia, il loro pop elettronico, nella sostanza, mostra un gusto melodico tutto sommato pregevole, e l'impostazione a canone di Breezebrocks (titolo anch'esso, che non ti aspetteresti: non si smentiscono proprio mai!) è irresistibile e martellante.
Non c'è proprio da stupirsi, insomma, che i loro concerti siano pieni di ragazzine urlanti ma, ciononostante, i loro due dischi scorrono piacevoli all'ascolto.

 Io trovo che sia una buona musica da ascoltare sovrappensiero, mentre si passa il tempo sulla scrivania, come del resto è in voga in questi tempi da Facebook e culi flaccidi. Aspettiamo quindi che questi fichetti se ne escano col terzo disco, sperando che facciano un passo falso, o che sia l'hipsterata del secolo, cioè un disco country registrato con microfoni degli anni 20 in un granaio dell'Ohio ed amplificatori valvolari biodegradabili in tecnezio, che uscirà solo in un formato audio finora inedito e downloadabile solo mediante carteggio con piccione viaggiatore, edizione con bonus track per chi usasse un falcone da caccia o il papiro al posto della carta.

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