martedì 24 febbraio 2015

Fottere allegramente Spotify...


..e vivere tranquillamente in questo nuovo millennio ipertecnologico del cazzo



Abbiamo tutti applaudito l'arrivo di Spotify. Specialmente quelli della generazione degli anni 60 e 70, rimasti tagliati fuori rispetto ai più giovani sulle modalità di ascolto e di racimolamento del formato mp3. Li abbiamo visti partire in quarta all'inizio degli anni duemila, passarsi le vecchie glorie del passato in cd rw (rewritable) da 700 Mb (o, in alcuni casi, il rarissimo formato da 870 Mb, alias 90 minuti, che io ritenevo pregiatissimo per realizzare le compilescion per la macchina, anche se presentavano notevoli problemi di compatibilità), per poi arenarsi, nella maggior parte dei casi, spaesati dai vari eMule, bittorrent, filestube, torrentz, dai vari malware, virus ed altre meschine insidie che si celavano dietro alle oscure meraviglie del web.
I benestanti se la sono cavata ignorando il progresso, potendo permettersi di comprare ogni uscita nel suo legittimo formato magnetico, quelli ancora più abbienti non hanno neanche pensato di abbandonare il vinile; la maggior parte è rimasta in un limbo, ha dovuto resettare o cambiare il computer numerose volte a causa dei virus e si è ritrovata, nei casi peggiori, a lambiccarsi con consolazioni inutili come la discografia di Eric Clapton in quaranta dischi, di cui generalmente ascolta solo Layla, per quanto paradossalmente priva della produzione Derek & The Dominoes, e di raccolte come “le 500 canzoni più belle di sempre” o “i 200 assoli migliori della storia del rock”.
Spotify è un portale incredibile, contiene così tante cose che persino realizzare una ricerca banale come, ad esempio, A-Ha dei Take On Me, non constituisce un'operazione immediata. Ha una grafica incredibilmente accattivante e permette di ascoltare un disco anche se non è uscito nel proprio paese, allo stesso tempo tutelando i diritti dell'ascoltatore e del musicista. Il top del top, quindi? Sbagliato!
Spotify non tutela i diritti dell'ascoltatore. L'industria musicale, per quanto nel suo complesso sia stata valutata una cifra inferiore rispetto a quello che Zuckerberg ha pagato per Whatsapp, è messa in moto dallo scorrere di un unico, banale, ripetitivo motivetto musicale: il fruscio delle banconote.
Per fare soldi servono pubblicità. Ecco la gran trovata -ecco la truffa.
Spotify non è che uno specchietto per le allodole. Dietro ad un'apparente, infinita gamma di vantaggi, si racchiude la più grande truffa musicale del secolo ai danni del consumatore e della comunità artistica.
  1. Spotify ha introdotto le interruzioni pubblicitarie nello streaming. L'unica alternativa soddisfacente abbonamento premium (9.99 € al mese!), che permette di avere a disposizione la possibilità di scaricare un numero illimitati di brani e di poterli riprodurre senza interruzioni. A questo va ricordato che lo scaricamento risulta sempre l'opzione preferibile, in quanto lo streaming consumerà molto rapidamente il traffico internet del vostro smartphone.
  2. Spotify seleziona la musica al posto del consumatore. Non è possibile ascoltare una traccia desiderata su Spotify, a meno che non si ricorra ad un abbonamento. É consentito solo uno shuffle casuale, che generalmente verte sui pezzi più ascoltati. È la logica da social network, secondo cui solo i pezzi più popolari sono quelli che hanno diritto alle luci della ribalta. Io credevo che fosse finita qui, ma non è così. Spesso lo streaming del gruppo che avete scelto può essere interrotto per dare spazio ad un singolo dell'artista più noto del momento: una soluzione alternativa alla pubblicità, o un insulto vero e proprio?
  3. Spotify ha letteralmente ucciso il mercato dei lettori mp3 e degli iPod, troppo poco competitivi sul prezzo rispetto agli smartphone, che offrono possibilità di comprare Gb di streaming su Spotify nella tariffa mensile. E gli allocchi abboccano come se stessero regalando la fica di Belén. Inoltre ha reso la disponibilità di torrent e mp3 in direct download sempre più scarsa, conquistandosi un monopolio di punto in bianco.
  4. Spotify non dà quasi nulla ai musicisti. Si tratta di pochi centesimi ogni centinaio/migliaio di volte che scatta la pubblicità, è un meccanismo che funziona solo per i grandi artisti. Questi spicci vanno però condivisi con il manager, il produttore ed una serie di intermediari, ed alla fine ai pesci piccoli restano solo le briciole. Se volete sostenere un progetto musicale, fate lo sforzo di comprare almeno il cd: in fin dei conti, è quanto paghereste una cena con gli amici (In Italia, all'estero, fortunatamente, i dischi hanno prezzi più competitivi).
  5. Spotify richiede credenziali. E non mi riferisco all'utente. Poter caricare la propria musica su Spotify è un privilegio al quale si può arrivare solo mediante un intermediario adeguato. Se da una parte si possono trovare delle vere e proprie perle che prima erano impossibile da scaricare, dall'altra gli artisti emergenti si vedono sacrificare il meglio del loro repertorio per vedere promosso solo quello appoggiato dall'agenzia di promozione. Sono le agenzie a decidere, non i musicisti.
  6. Spotify è classista. Hai i soldi, nulla cambia, anzi forse ci guadagni qualcosa. Non hai soldi: resti indietro. Le novità usciranno su Spotify. Accetta compromessi come la pubblicità o resta fuori.
  7. Spotify non ha tutto! Mancano dei veri e propri classiconi! Alcuni cataloghi di artisti come, ad esempio, i Funkadelic, sono privi di alcuni capitoli fondamentali. Youtube è decisamente più fornito. Per certi versi, anche il caro vecchio Grooveshark lo è.

Dopo mesi di sperimentazione del programma (e del progetto) Spotify nelle sue versioni differenti (smartphone, programma per windows e Spotify Web Player) siamo giunti alla conclusione che sia il caso di intervenire.
 Nei prossimi giorni scriveremo alcuni post in cui forniremo gli strumenti adatti ad un hacking emancipatorio o, per i meno arditi, cyberformule che perlomeno aiutino a rimuovere gli spot pubblicitari.
A presto, restate sintonizzati (ma non su Spotify!)

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