giovedì 3 maggio 2018

Qualcuno parli male degli Zen Circus


Esistono vari motivi per cui non mi starà mai sul cazzo quel trio formato da Appino, Ufo e Karim Qru.
Ne esistono altrettanti per cui stanno diventando un’ossessione, e purtroppo non solo mia, e comincio ad essere stanco di sentire il loro nome ovunque.
Per carità, Appino! Quasi quarantanni, una gavetta di concerti e successo di tutto rispetto, l’esperienza della strada, del busker in Olanda o dove minchia era, eppure non ha mai perso di vista l’importanza di raccontare storie. Per non parlare della presenza e dei suoni sul palco, tanto di cappello. Niente a che vedere con lo scempio disorganizzato de Lo Stato Sociale, de I Cani, o del frastuono improbabile ed etilico del Teatro Degli Orrori, che pure i palazzetti li riempiono.
.
Il problema sostanziale degli Zen Circus è un altro: la musica

Cari Zen Cirucs, ma dove cazzo è finita la vostra musica?
Dove cazzo sono finiti i Violent Femmes di cui si sentiva tanto parlare nei dischi degli esordi, i Weezer, i Velvet Underground e tutti quegli altri? Dove sono finiti gli strumenti degli Zen Circus? Non mi vorrete mica cercare di dire che il sound che avete adesso è il vostro, dov’è finito quel bel tiro aggressivo di una volta?
E poi, Voi della Critica. Qualcuno, per favore, mi faccia piacere, ritorni a parlare
del La Musica!
Ho una spiacevole sensazione che mi perseguita da mesi. Sembra che, in questo paese, se sei capace di dire qualcosa di carino, e di avere qualcuno coi mezzi che ti permetta di dirlo a voce alta, diventi automaticamente un musicista coi controcazzi: ma qui siamo quasi arrivati al paradosso.
Fermiamoci un attimo.
Ragioniamo.
Sto incontrando delle serissime difficoltà a trovare una brutta recensione de Il fuoco in una stanza. Vi giuro, mi sono sforzato. Qualcuno si è limitato a dire che forse non è il disco meglio riuscito. Nessuno dice che la musica faccia cacare. Niente. Stando ad Ondarock, è il loro migliore album in venti anni di carriera, ma la mia etica di musicista esordiente e nerd della musica mi impone di dire a voce alta che è una cazzata enorme.
L’album è uscito all'inizio di quest'anno, e pareva che questa volta fosse stato proprio Appino a voler mettere le mani avanti, imponendo delle scelte stilistiche che lo avevano portato, in precedenza, a registrare dei dischi da solista. Lo apevo già che con questa premessa il disco probabilmente non mi sarebbe piaciuto, perché avevo apprezzato l'onestà intellettuale del cantante di non contaminare il progetto degli Zen. E tutto sommato, fino a che esisteva Appino ed esistevano gli Zen, non era andata poi così male: Andate tutti affanculo (2009) era stato l'apice creativo degli Zen, un disco unico, fuori dal coro, che aveva portato a galla una rabbia pulsante, un'ironia amara, per niente qualunquista e superficiale, calata nell'italianità, senza cedere all'indie anglosassone si sentiva ovunque, anzi, rifiutandolo a pieno titolo a favore di una forma canzone più semplice, immediata, forse più vicina ad un certo pop rock degli anni 60. Nati per subire (2011) sembrava quasi la continuazione del disco precedente: un manifesto isolato di una generazione, un dipinto di realtà periferica, due tacche sopra rispetto alla retorica da social dei Cani, o de Lo Stato Sociale. Eppure qualcosa, musicalmente parlando, si era già incrinato in quel 2009, con quel divertissement che erano i quattro accordi di Andate tutti affanculo. Sono convinto che Appino fosse intenzionato un po' a prenderci per il culo quando l'ha composta. Eppure, ascoltando Nati per subire, si sente già che i riff si indeboliscono, nonostante la qualità cristallina dei testi. Basta ascoltare Il qualunquista, il secondo riff che si ascolta in Nati per subire, o l'intermezzo di Atto secondo, che non è che il ritornello di Andate tutti affanculo, cantato tale e quale.



(lai la, lai la, lalalala lai la... eddai, inventatevi qualcos'altro

Nel 2013 era uscito l’Appino cantautore, non proprio di mio gusto, che però aveva permesso ad Appino di ottenere quei riconoscimenti necessari per ottenere fiducia in sé stesso e scrivere un capolavoro come Viva (2014), forse uno dei pezzi che rimarranno nel nostro immaginario collettivo anche tra vent'anni. Viva, così priva di slogan facili, riesce a fare breccia senza essere un pezzo politico, e menchemeno fare ricorso a facili qualunquismi. Viva è il fotogramma perfetto di un momento storico, non di una generazione in particolare, ma di una sofferenza condiviso che non aveva voce, del dramma irrisolto di migliaia di persone condannate ad un'esistenza relegata fuori dalla superficialità ed allo stesso tempo ingabbiate dentro ad una situazione storica e sociale che impedisce di fiorie, di sbocciare, di coltivarsi. 


Tuttavia, il problema della scialbezza delle soluzioni musicali degli Zen, volendo lo si può ritrovare anche in Viva. Andando avanti con l'ascolto, si può sentire il tema insopportabile di Postumia. Non è bello o brutto: semplicemente non sa di nulla. Bastano i primi tre secondi per chiedersi: ma io, davvero, voglio ascoltare questa roba? Se si eccettua quel guizzo imrpovviso di vita nel sentire gli eco dei Calexico di Dalì, l'intero album dal punto di vista musicale è piattissimo, se non insignificante. L'album propone anche Canzone Contro la natura, la prima di una lunga serie di pezzi costruiti a tavolino per far saltare la gente dal vivo, uno più scontato dell'altro, con quel riffone scopiazzato suonava già vecchio trent'anni fa ed un ritornello semplicemente inascoltabile. 


Ed è più o meno a questo punto che però Appino ha vinto la targa tenco, ed ai concerti degli Zen, comunque, la gente è presa bene e si poga. L'attesa ha dato i suoi frutti, tutti sono ancora così sconvolti da quanto Viva incarni lo zeitgeist dell'Italia "che vive in un monolocale fatiscente e che non vuole ma forse dovrebbe votare cinque stelle" per dimenticarsi dell'affronto inaccettabile che è Postumia. Appino, che si è fatto praticamente lo studio in casa, decide allora di fare un disco più o meno su ogni cosa che partorisce, ed ecco che così nel 2016 arriva La Terza Guerra Mondiale, trainata da un singolo banale come Ilenia. Un altro riffone da quattro soldi, l'idea del video rubata pari pari a The View From Afternoon degli Arctic Monkeys (ma con una bella fica, per non dimenticare di mandare il messaggio che per Appino è arrivato il momento di trombarsi tutte le fan ventenni) e la prima vera cessione alla scena "indie" contemporanea (che poi in realtà già cinque anni buoni di storia ce li aveva, ma capirai: le chitarre non vanno più!): gli odiosi synth rubati al revival new wave degli anni 80, proprio quelli di Stato Sociale, Cani & di tutto ciò che odiamo, che quasi gli anni 80 della Donatella Rettore ce li fanno rimpiangere.


Dopo quindi aver semplificato il songwriting, dopo aver preso la decisione di produrre praticamente ogni cosa partorita dal gruppo, la qualità esecutiva di Appino stesso è irrimediabilmente peggiorata. Alcuni avevano pensato che L'anima non conta era un gran pezzo rock. Tutto sommato, anche se ricorda un po' un Ligabue dei vecchi tempi - ebbene sì, i termini di paragone son questi - sarebbe una cazzata dargli torto. Eppure l'altro fattore che mi irrita quando ascolto gli Zen Circus è perfettamente tangibile in questa canzone: è la voce di Appino.
Il problema però è che Appino sa cantare, e sa cantare in un modo che mi piace molto. Eppure nel corso degli anni  si è fatta odiosa ed "appesantita" inutilmente, con una zeppola sempre più presente. L'anima non conta non è un brutto pezzo, tutto sommato. Il problema è che è cantato da schifo. La linea vocale non funziona propria, la melodia vocale è proprio costruita male. Questo perché, mentre gruppi come il mio o quello dei Verdena scrivono una linea vocale in inglese, o a versi, e poi ci mettono su, faticando come dei matti, un testo, Appino si limita semplicemente a "incastrare" magicamente tutte le parole che dice nella musica scritta a parte, ma non ha bisogno di chiedere feedback a nessuno, perché sa che qualsiasi cosa partorità avrà comunque la critica, e l'effetto pecora, dalla sua parte.

(anche qui, fiche ventenni mezze scoperte...ve l'avevo detto)

A questo punto dovrei mettermi a parlare dell’ultimo album, ma non lo farò. 
Per tre principali ragioni, una delle quali è questa, tratta dal disco The Zen Circus and Brian Richie, pubblicato ben dieci anni fa, che si dovrebbe commentare da sola.
A mio parere qui siamo vicini all'apice musicale di tutta la carriera degli Zen Circus, col suo sapore spudoradicamente retrò, la sequenza facilona del ritornello, i suoni semplici e la voglia di fare musica per divertirsi. C'è un motivo per cui suona così bene: non sembrano loro. Il suono sarà impersonale, la voce di Appino strafunziona, come del resto funziona tutto quanto.

 
Il secondo motivo, già citato, sempre la voce di Appino: inadatta all'italiano, perfetta in inglese.
Terzo e ultimo, ma non per importanza, è che tutto l’impianto musicale degli Zen, se togliamo i pezzi in cui suonano esattamente come i gruppi che li hanno influenzati, non ha assolutamente niente da regalare. Il sound è "vecchio" di per sé, data la formula del gruppo, ma questo è il meno. I riff che meritano si possono contare sulle dita di una mano, o di due in tutta la discografia post Nello Scarpellini, i ritmi sono sempre dritti e senza sorprese, invece le canzoni introdotte da riff completamente inutili ed insipidi, come quello di Emily No, abbondando ampiamente. Eppure il talento per scrivere della roba interessante non manca, basta pensare al lavoro eccellente di Karim ne La Notte Dei Lunghi Coltelli, o a casi isolati come L'Amorale. Ancora meglio, in un pezzo sottovalutato come It's paradise, si può dire che gli Zen Circus abbiano realizzato il compito che centinaia di altri musicisti avevano tentato spesso timidamente o catastroficamente, di resuscitare il fascino di De André. It's paradise, che il fan medio degli Zen Circus probabilmente non conosce nemmeno, nella sua parabola apparentemente innocente, con quel suo andamento apparentemente disimpegnato da "banda del circo Zen", racconta il tema della morte, per circa quattro minuti, in maniera analoga, sebbene senza alcuna pretesa di somiglianza, a come De Andrè aveva raccontato la guerra nel suo Girotondo, che è una delle poche canzoni che riescono a commuovermi dopo centinaia di ascolti.






Poco importa se passati nove anni la produzione è di tutt'altra qualità, poco importa se Karim si presenta alle interviste indossando magliette di oscure formazioni dell’hardcore punk americano, poco conta che abbiano chiamato Francesco Pellegrino per curare meglio le chitarre. E, soprattutto, poco importa che quel primadonna di Lodo Guenzi li abbia definiti in diretta TV “la band migliore della nostra generazione” – dimenticandosi forse dell'esistenza dei Verdena
Piccola parentesi: ti prego, Lodo, continua a fare il presentatore, basta che la smetti di stonare e di comporre musiche. 

Dicevo, i testi da soli non li salvano perché, oltre a quelli, agli Zen non rimane pressoché nulla.
Vorrei farvi presente che i dischi degli Zen ce li ho tutti. Ci ho creduto fino alla fine, perché mi piacciono come persone, mi riconosco nel loro modus pensandi e sono capace di commuovermi davanti ad alcune dichiarazioni rilasciate da Appino nelle interviste. Ce li ho tutti, e per tutti non intendo da Doctor Seduction in poi, com'è abituato il pubblico che passa attraverso il collo di bottiglia di Spotify, ma dall’oscuro “About thieves, farmers, tramps and policemen” , autoprodotto, che fu pubblicato nel 1999 ancora sotto il nome The Zen.
Vorrei consigliare a tutti i fan degli Zen - non quelli dell'ultima ora, capaci come sono di ascoltare persino Sfera Ebbasta - di andarselo a sentire, il disco dei The Zen. L’album è reperibile solo su Rockit, su cui è possibile leggere una recensione risalente al 2001 che riporta questo monito: 
“tenetevi pure i vostri Afternoiahours, ma lasciatemi i miei The Zen”. 
Era il 2001, però chi ha scritto l'articolo aveva ragione. Nel 2001 gli Zen erano veramente una novità. Noi (dico noi, ma avevo si e no una decina d'anni) ci trastullavamo con la nuova scena alternativa (indie non si diceva ancora) italiana, e ci sentivamo tutti degli intellettuali solo perché sembrava che Godano, Agnelli e Ferretti, in qualche modo, coi loro versi pomposi e ricercati, ci regalassero ascoltatori una specie di aura colta, ipocritamente controcorrente. I ventenni The Zen, dal canto loro, si autoproducevano a Livorno, senza la pretesa di portare il noize nel cantautorato, ma con la volontà di fare del punk acustico di qualità, libero da schemi e mode e fuori dal tempo, con un schiettezza e semplicità che quasi sembravano scomparse dai giri della musica alternativa. Con la volontà di mettere su una musica quasi da circo, da cantare in tutte le lingue del mondo (gli Zen hanno inciso in inglese, in francese, ma anche una canzone in sloveno, Narodna Pjesma).


Ahimè, sono passati ben 19 anni da quel disco, ma a quel tempo ne erano passati solo 15 dall’esordio dei Violent Femmes. Forse dovremmo ragionare anche su questo.


Ascoltando i primi due dischi degli Zen – e, tutto sommato, anche quei due che vengono dopo – mi sono reso conto che la voce del ventenne Appino, un po’ più puerile e stridula, era perfetta per lo scopo, per i Violent Femmes italiani dei 2000. La faccenda è degenerata in seguito, un po’ per la scarsa attenzione che questo Paese dedicata alla produzione musicale interna in lingua straniera, un po’ perché forse nessuno si è reso conto che la direzione musicale stava andando nella direzione sbagliata. Ce ne saremmo potuti accorgere già nel 2005, quando ascoltammo per la prima volta Aprirò un bar, il primo loro manifesto della realtà di periferia, la prima dimostrazione dei limiti della voce di Appino in italiano.


Di lì in poi, i pezzi degli Zen si sono elettrificati, appiattendosi su uno standard musicale non minimamente all’altezza rispetto alle grandi proposte del panorama nazionale del circuito alternativo e non. Un rock-pop sicuramente con dei testi di grande valore, ma privo di un supporto musicale adeguato. In questo senso Ragazzo Eroe, che risale ormai a sette anni fa, si può considerare un piccolo gioiellino in mezzo ad un mare di merda, e perché recupera prepotentemente l'influenza dei Violent Femmes dei primi dischi. Lo stesso discorso si potrebbe anche dire per il simpatico ep Metal Arcade Vol.1, in cui i membri del gruppo si divertono a scambiarsi il microfono ed ad incattivire i suoni, dimostrando di saperlo fare anche con gran classe. Un peccato, perché forse è il disco che si fa ascoltare meglio, quello più godibile all'ascolto. 


Appino avrebbe potuto continuare a tirare schitarrate veloci e cantare piccoli stornelli, avrebbe potuto mettersi a fare del buon punk in inglese,
In Italia spesso si dimentica che c'è una grandissima dignità nel riconoscersi in una scena estera, nello scrivere canzoni in inglese affini a gruppi che ci piacciono. Questo comportamento viene puntualmente bollato come mera emulazione, ed in questo modo, gira e rigira, le uniche proposte che arrivano al grande pubblico sono sempre quelle più scontate, più banali e puntualmente in ritardo sulle tendenze americane o inglesi. Eppure sono pochissimi quelli capaci di catturare l'essenza dei Violent Femmes.
Gli Zen Circus avrebbero potuto privilegiare certe scelte e diventare uno dei nostri gruppi preferiti.
Ahimé, al contrario, man mano che Appino si è allontanato dal modo di cantare proprio, ad esempio, de L'egoista, man mano che la proposta musicale degli Zen si è allontanata al grintoso punk folk degli esordi,
si è avvicinato sempre di più i favori di una critica sempre meno interessata alla proposta musicale vera e propria e sempre di più al personaggio, al messaggio, all'immagine, e che di lì a poco si sarebbe fatta le orecchie persino agli abomini de Lo Stato Sociale, de i Cani e di Calcutta, che avrebbero fatto finalmente a pezzi quel poco che rimaneva della dignità della canzone italiana.
Da questa mandria di incapaci travestiti da musicisti che riempiono i palazzetti ed i teatri vorrei salvare due artisti: Motta e Mannarino. Sul secondo non credo nemmeno di dover dare motivazioni, perché è forse l'unico autore di musica tradizionale d'autore che gode di un certo hype, a mio parere pienamente meritato. Di Motta, oltre ad una certa affinità nel background culturale e musicale, apprezzo che, a differenza degli altri, non si vergogna di cantare:
di cambiare accordi no/ non me ne frega niente 
nella title track del suo ultimo album, Vivere o morire. A differenza de Il fuoco in una stanza degli Zen, il disco di Motta è fatto di composizioni estremamente semplici ed arrangiamenti minmali, estremamente accorti, che funziona nel suo tentativo di rimanere dentro al seminato.
Purtroppo, però, l’Italia non è un Paese in cui si parla di musica quando si parla di musica.
Pensate all’exploit di Calcutta, all’ingigantimento del fenomeno di Lucio Corsi, ai Cani, allo Stato Sociale.
Il motivo per cui si parla degli Zen Circus, oggi, non è mica perché hanno inciso un buon disco. Oggi si parla degli Zen perché sono la nuova big thing, il nuovo fenomeno indie per quelli che hanno bisogno del nuovo effimero fenomeno indie. Tutti sono interessati all'aria maledetta di Appino, all'aria rovinata di Ufo. Hanno un che di nuovo e sono unici rispetto al resto del panorama indie: innanzitutto non sono nuovi per un cazzo, perché sono in giro da vent'anni. Poi, la loro aura di gente integra, intelligente e non paraculata li paracula agli occhi dei detrattori dei paraculi come i Cani e Lo Stato Sociale (come me).
La qualità della scrittura dei testi li rende appetibili anche al vecchio pubblico, quello della “velleità” della poesia in musica, ed allo steso tempo immuni da chi è detrattore dell’eccessiva semplicità della scena indie attuale, che invece ha la pretesa arrogante di fare arte o opinione buttando quattro righe su un ritmo rubato ad un scena indie americana o anglosassone (rapida carrellata: Lucio Corsi, Cani, Calcutta, Venus in Furs ed in generale tutta la schiera di rockerini di Phonarchia Dischi, ecc…). Ora, capisco che gli Zen sono veramente dei bei tipi umani, tutti e tre, anzi probabilmente tutti e quattro, e capisco che, per l'italiano medio, quello sanremese, accendere la televisione e ritrovarsi questo spettacolo sia un'esperienza assolutamente inedita:




E, se mi metto nei loro panni, lo capisco. Hanno un look, un modo di fare, un sound, persino un modo di raccontare attraverso la musica, che non è di nessun altro. O, meglio, che di sicuro non è mai stato visto dal grande pubblico all'interno del cantautorato italiano post De André. E quindi mi vien da pensare che forse è una fortuna, che forse devo spostare il mio dialogo solipsistico ed accogliere un'opinione più condivisa.
Ciononostante, dopo appurate ponderazioni, mi rendo conto che io non sono quel pubblico, io non sono l'italiano medio, io non posso giudicare, anzi scontare un'artista di un determinato giudizio solo perché la maggior parte del pubblico è così ignorante. Mi rendo di far parte di un elite culturale del mondo musicale del mio Paese ed è giusto che pertanto continui a parlare con i termini corretti. Mi sembra giusto che tocchi a me, che seguo gli Zen da anni, da "musicista", se musicista possiamo definiere me o lo stesso Appino, che gli ultimi tre dischi degli Zen musicalmente non valgano un cazzo e che si salvano solo per la qualità delle liriche, perché nessuno, e dico nessuno, lo sta facendo in questo momento.

Ancora una volta, però, il problema è che tutti si son dimenticati di parlare della musica.
Se volessimo parlare veramente di musica, allora dovremmo stare ancora parlare dei miracoli degli ultimi anni come Blackstar di David Bowie, o di 22, A Million di Bon Iver, di Kendrick Lamar, di Ty Segall.
Ma chi cazzo sono, al confronto, gli Zen Circus?
Appunto.
Chi cazzo sono tutte le altre formiche che ho citato prima?
Gente, usate internet: ormai la musica è gratis!

E quindi niente, mi fermo qui. Vi lascio dedicando il mio spazio alla riflessione di questo tizio romano, Fulvio Venanzini, che si dichiara di non essere nessuno e di non contare un cazzo e che parla liberamente davanti alla sua webcam, commentando gli autori della scena indie contemporanea. È stato il suo commento su Calcutta a smuovere l'esigenza di scrivere questo articolo:
Voi dite che dovrei ascoltarmi l’intero album, ma io non ce la faccio. Ho altro da fare. Non posso perdere tempo ad ascoltarmi la discografia di Calcutta sapendo che, ad esempio, Omar Rodriguez nel 2016 ha pubblicato 12 dischi.”

Gente, ritorniamo a parlare di musica.
Ogni volta che trovate un articolo di un'opinione che non condividete, pubblicatene un altro e fornite l'opinione opposta. La critica musicale è ormai un'operazione di mercato: sono le persone come me e Fulvio quelle che vi danno un parere non condizionato.




lunedì 18 dicembre 2017

Le otto più grandi delusioni italiane di questo 2017 - #3 Rovazzi

Vi chiederete come mai un integerrimo rompicazzo come me abbia riservato a Rovazzi solo la terza posizione, in una classifica dove tutto sommato si era parlato di gente in gamba, gente che fa musica, pur con i suoi limiti (qui elencati), come i The Circle (#8), Motta (#7), gli /handlogic (#6), Manuel Agnelli e Levante (#5) ed i Marlene Kuntz (#4).
State bene a sentire

Le otto più grandi delusioni italiane di questo 2017 - #3 Rovazzi
ossia
"come dimostrare che della musica ormai non gliene frega un cazzo a nessuno"

Vogliamo ricordarcelo così, Fabio Piccolrovazzi (controllate bene, il cognome Rovazzi in Italia non esiste), classe 1994. Un ragazzino dall'aria semplice, una foto casual senza pretese da stardom, un look da italiano medio, con il ciuffetto che va tanto tra i giovanissimi e quel tocco nerd che non guasta.
Perché Rovazzi non è mai stato un'artista musicale. Rovazzi è un nerd.
Lo abbiamo conosciuto con la bellissima clip di Andiamo A Comandare, ma era già comparso in una serie di video comici da lui stesso concepiti, anche se il suo vero esordio è stato a fianco di Fedez, nel video di Non C'è Due Senza Trash.


In un certo senso ammiro Rovazzi. Pur facendo parte ormai dell'immaginario collettivo, ed essendo a pieno titolo una vera e propria figura di punta della musica di successo italiana di questi ultimi due anni, non si è sbilanciato di mezzo millimetro. Ogni suo pezzo è stato concepito magistralmente per fare presa su una critica sociale piaciona e fine allo stesso tempo.
Rovazzi era un ragazzino appassionato di montaggi ed aveva pubblicato alcuni video su youtube. Tra questi, un video che lo ritraeva con una ragazza che lo assillava con delle problematiche frivole. Lui, annoiato, la portava sul tetto, dove grazie all'utilizzo di un drone, probabilmente il gioiellino-regalo di natale o frutto di qualche mese di risparmio, le mostrava il paesaggio dal tetto di un palazzo: la vastità del "cazzo che gliene fregava". 

 
Qualche mese, anzi un annetto dopo, l'incontro con Fedez, la partecipazione a Non C'è Due Senza Trash, il video di Andiamo A Comandare.


Spinto inizialmente dai cameo di Fedez e di J-Ax, il video si era inizialmente fermato intorno alle 500mila visualizzazioni. Non male per un giovane esordiente, troppo poco per sostenere una carriera da youtuber a colpi di inserzioni pubblicitarie. Poi, il famoso effetto pecora. Il video diventa virale. Il balletto ed il ritornello diventano un tormentone. E fin qui, niente di male. Il video arriva ovviamente in TV, non tanto perché viene passato dalle emittenti musicali, ma in quanto diventa argomento da parte di fenomeni da palinsesto più noti. La coreografia di quel balletto ironico passa in prima serata. 
L'escalation è devastante. Le visualizzazioni arrivano fino a sette, fino a otto zeri. Le radio cominciano a passare la canzone, il singolo diventa disco d'oro solo grazie al conteggio delle visualizzazioni di Youtube. In un certo senso, Rovazzi ha fatto una rivoluzione. Siamo passati dalle vendite allo streaming, senza passare dai soliti meccanismi di promoting.
Eppure, questa storia, fuori dall'Italia, si era un po' già vista. Io mi ricordo che quando ero sulla ventina c'era questo gruppo col culo parato, che mischiava l'ironia con dell'elettronica spicciola ma pur sempre ben prodotta, ma accattivante. Si trattava di Stefan Kendal Gordy, in arte Redfoo, figlio tardivo di Berry Gordy, mitico fondatore dell'etichetta Mowtown. Redfoo è stato, in assoluto, il primo artista a raggiungere il milione di like su ogni tipo di social network grazie alla pubblicazione di un video. Si trattava di Party Anthem, del duo LFMAO, nel quale collaborava assieme a suo nipote, .Skyler Austen Gordy, in arte Skyblu. Ancor più interessante, però, fu il successo virale di I'm Sexy And I Know It, video trash in cui lo stesso Redfoo si strattava i pantaloni per mostrare un imbottissimo perizoma ed agitarlo davanti alla telecamera.


Di lì a poco, gli LFMAO incassarono i soldi e scomparsero nell'oblio. Fu invece un rapper sudcoreano a raccoglierne l'eredità, PSY, inventandosi un ballo che facesse il mimo di un cavallo al galoppo. Il video, concepito satiricamente per prendere in giro le abitudini del quartiere borghese di Seoul, fu il primo in assoluto a raggiungere il miliardo di visualizzazioni su Youtube. Il fatto fu così eclatante che alcuni accostarono persino un'oscura profezia di Nostradamus al raggiungimento del traguardo a nove zeri:

“From the calm morning, the end will come when of the dancing horse the number of circles will be nine.”
(Dalla calma mattina, la fine avverrà quando del cavallo danzante saranno nove i numeri dei cerchi)


Ovviamente, la profezia è una parodia scritta ad hoc per fare un po' di caciara sui social. Volendo, però, possiamo comunque soffermarci su due parole dall'ammonimento dell'ipotetico Profeta.

LA FINE.

Io in un certo senso ero felice di Sexy And I Know It. Ero felice anche di Gangam Style. Finalmente un po' di artisti di successo che non si prendono sul serio. Però, guardando dall'altro lato della medaglia, il peggio potrebbe essere proprio questo. Potrebbe essere che sviluppare la libertà ideologica di poter sfacciatamente proporre un prodotto di merda, venderlo come tale, gridando al mondo "sono solo puttanate" sia la scelta vincente. Questo è il discorso che fanno apertamente sia Rovazzi alla fine del video di Tutto Molto Interessante che Papi alla fine del video di Mooseca.


Sostituirsi, in tal senso, alla musica, porterebbe necessariamente alla fine della musica come forma di arte. Perché prima c'erano gli artisti che facevano le canzoni brutte e ballabili, che rimanevano confinate nelle discoteche per un pubblico di ballerini goffi, ubriachi ed arrapati, e c'erano le canzoni belle, quelle che facevano a pugni con l'idea del successo, forse non ci arrivavano proprio, ma finivano per rimanere nel pantheon del bagaglio culturale umano e, magari, venivano rivalutate anni dopo.
Ora che, invece, l'importante è fare trend, ed il trash è il modo più veloce per farlo, bypassando il talento di netto, gli artisti che vogliono fare dell'arte si trovano un'altra porta sbarrata: una porta di piombo spessa 50 cm, impossibile da tirare giù, se non con l'unica chiave che permette di valicare tutte le porte.
Il porno. 


Ed è così che se non hai un bel paio di cosce, un volto da fata, un bel paio di tette, se non sei bellino da morire e depilato, o se non hai uno schwanzstucker colossale da mostrare, a nessuno interessa la tua proposta. Le porte del business vengono sempre più sbarrate alla cultura.
Poco importa che si possa vivere di piccoli circuiti, di musica e di scene alternative. La controcultura ci sarà sempre. Ma, di fronte ad una massa imperante, sempre più alla mercé di un bombardamento mediatico totalmente privato del contributo culturale, qualsiasi tentativo di fare arte, e cultura in quanto tale, diventa inutile.
Rovazzi è su questo che si adagia. Io ammiro l'onestà di quel ragazzo per essersi scusato ufficialmente davanti alla comunità dei musicisti italiani.
 Lo avesse mai fatto nessuno prima di lui. 
Ha chiesto scusa, non se lo aspettava, lo ha fatto e si è guadagnato il mio rispetto.
Ma il problema è che lui stava giocando, e tutti lo hanno preso sul serio! Questa è la dimostrazione della merda di mondo in cui viviamo. Se hai 10 miliardi di visualizzazioni, poco importa che tu non abbia niente da dire o sia il Diavolo in persona. Sei qualcuno, la gente ti ammira, ti vuole, vuole stare con te, vuole farti un pompino. Come se ingoiare la tua sborra li avvicinasse a Dio. Ma quale Dio? Qui siamo davanti al più misero dello squallore, alla più becera delle umiliazioni. Io posso ancora capire il discorso della vecchia groupie che è fissata con il suo gruppo preferito e se li vuole scopare tutti, dal primo all'ultimo, che si covi un bel sano desiderio di trasgressione sessuale. Ma qui siamo su un altro pianeta.
Rovazzi.
Saluta Andonio (Marco), quindicenne che viene pagato 5000 euro a discoteca e riceve video di striptease da parte di ventitreenni.
Enrico Papi che resuscita dal dimenticatoio cantando lo stornello con cui lo prendevano per il culo sui social.


Andrea Dipré che si fa spompinare da due 18enni che vogliono farsi pubblicità al loro ingresso nel mondo del porno.

Avevo ragione a scrivere che "il capitalismo ha vinto non perché ha cambiato il nostro modo di essere, ma quello di esistere": i nuovi personaggi famosi sono della gente ridicola che fa cose ridicole e piace in quanto tale. E tutto questo perché siamo sempre connessi, sempre appiccicati ad un cazzo di pc, ma anche il pc è diventato scomodo perché è grande ed impegnativo ed allora usiamo gli smartphone che sono pratici e vogliamo contenuti brevi, per non sforzare il nostro cervellino, e vai allora con il video di Instagram, il Meme, un Pornazzo, un altro video di Instagram, un mi piace al culo della nostra compagna di classe che è diventata modella.
Ma nel frattempo i teatri si svuotano, chiudono. Le Conad aprono negli edifici storici, i contest sono sempre meno partecipati, le piazze sono vuote.
Il giorno in cui i 2001 avranno il diritto di votare la speranza sarà finita. Ci restano solo due anni.
Per quanto mi riguarda, il nuovo presidente potrebbe anche essere Fedez, o Rovazzi. O, ancora peggio, quello che ci ha insegnato meglio di tutti a non pensare più a niente, a dedicare il nostro tempo al nulla più totale. Silvio Berlusconi.
Voi ridete e scherzate (come dice un famoso meme), ma ci sono due aspetti da considerare che hanno un fondamento scientifico:
1. Il nostro cervello è fatto da cellule che lavorano come muscoli. Ci sono certe cellule che si attivano quando leggiamo un foglio di carta. Meno lo facciamo, meno queste sono performanti. In sostanza, è praticamente logico diventare stupidi dopo due anni di notizie flash lette sugli smartphone
2. Quando il qualunquismo, il populismo, le frasi fatte, la risata facile, la logica arrogante del piacione ha una predominanza incontrastata su tutti i campi del sapere (giornalismo, arte, musica), la conseguenza politica inevitabile è il fascismo.
Non lo vorrei mai dire, ma rimpiango il fascismo. Quello vero.
Quello con l'educazione obbligata, le escursioni obbligatorie, gli inni scritti dagli artisti del fascio, le sperimentazioni artistiche.
La democrazia della rete è la madre di Rovazzi. La demagogia virtuale.
Gli adolescenti vanno a ballare Rovazzi. Tutto quello che sanno di Kurt Cobain è che era un figaccione, considerano Jimi Hendrix musica da vecchi.
La fine.

lunedì 4 dicembre 2017

Le otto più grandi delusioni musicali italiane di questo 2017 - #4 Marlene Kuntz



Ebbene sì, eccoci qui ad entrare finalmente nella parte alta (cioè bassa, ahimé) della classifica delle 8 formazioni italiane più deludenti di questo 2017.
Riassumendo brevemente, abbiamo parlato
dei The Circle (#8) – dubbi confermati, artisti della mistificazione informatica
di Motta (#7) – fenomeno della porta accanto con lacune tecniche evidenti,
degli /handlogic (#6) – talento incredibile, ma esploso solo grazie ad un incredibile caso di omonimia
 e della coppia Agnelli/Levante (#5) – eroi indie trasformati in fenomeni da palinsesto.
Oggi però entriamo in un altro regime, quello delle delusioni vere, spietate, in cui il perdono e l’empatia vengono messe da parte di fronte alle spiazzante scelte degli artisti, o dei presunti tali.
Parliamo pertanto de

Le più grandi delusioni musicali italiane di questo 2017 – Marlene Kuntz (#4)
ossia
come costruire una carriera dal talento all’antipatia, senza necessariamente passare dal successo”


"Nel disco "Canzoni per un figlio" hai detto che hai scritto le canzoni con l'intento di tramandare dei valori ad un figlio. Si può dire che, in questo senso, le canzoni siano venute a te o sei stato più tu a venire dalle canzoni?"
"Credi di essere tanto intelligente facendomi una domanda di questo tipo?"

Cristiano Godano, intervista per una web radio fiorentina, 2012

Premetto. Non sono io l'intervistatore, non ho mai conosciuto Godano di persona. O San Godano, come lo chiamiamo tra di noi.
Voglio cominciare così, cercando di essere delicatissimo.
Cristiano Godano è una testa di cazzo. Meriterebbe che qualcuno gli fracassasse la testa.
Meriterebbe di ritrovarsi tra le mani di una venticinquenne che fa finta di rimorchiarlo, lo porta in bagno, gli chiede di slacciarsi i pantaloni e poi accende improvvisamente le luci e lui si ritrova lì, col cazzo moscio in mano, circondato da ragazze bellissime che lo sbeffeggiano per il suo piccolo pene floscio, qualcuna al grido di "pervertito".
I Marlene Kuntz erano un gruppo fichissimo. Fichissima la genesi, fichissimo il nome (un gruppo italiano che fa eco agli Einsturzende Neubaten? Ed io che credevo di essere gli unici a conoscerli…) soprattutto per averlo tirato fuori prima dell’età dell’arroganza hipster – o dovrei dire dell'arrogantismo, la corrente di pensiero dei 2010 – in cui tirare fuori riferimenti di nicchia è diventato di moda.
Un nome tirato fuori agli inizi degli anni 90 in un Italia cui, comunque, il mondo guardava ai Nirvana ed agli Alice In Chains, mica ai Sonic Youth seppur fossero una costola fondamentale, se non i padri indiscussi, del movimento che aveva preso piede oltreoceano.
I Marlene Kuntz erano così fichi che, quando ancora non erano nessuno, un loro demo contenente la canzone Lieve, che sarebbe poi servito per la realizzazione di di Catartica, fece innamorare Giovanni Lindo Ferretti, al tempo forse la persona più influente sulla scena alternativa italiana. Fu proprio Ferretti ad insistere per l’inserzione di Lieve nel primo album dal vivo dei CSI, per non far sì che i Marlene non escludessero il pezzo dal primo disco, come avevano invece intenzione di fare.


 I Marlene, per ragioni sia storiche, che di genere, che per la loro collocazione nella scena alternativa italiana, possono essere utilmente paragonati agli Afterhours. Più estremi in tutti i sensi.
Più estremi nelle scelte musicali, nelle canzoni più complesse e respingenti come nei tentativi pop, più brillanti nelle scelte azzeccate, improponibili in quelle mancate.
A differenza degli Afterhours, che tutto sommato hanno sempre mantenuto un buon livello medio compositivo, si può dire che i Marlene in tutta la loro discografia abbiano realizzato 3 album ottimi, ed un live indimenticabile: Catartica, Il Vile, Ho Ucciso Paranoia e HUP: Live In Catharsis.
Poi, il Nulla.
Una raccoltina con due rivistazioni (Cometa), quattro album di merda, un best of, una vago sussulto di vita con Ricoveri Virtuali e Sexy Solitudini, un'altra rivisitazione dei vecchi successi ed il canto del cigno con Pansonica, che con la scusa dei vent'anni di Catartica ne riproponeva il sound e la grinta. Si può dire che negli ultimi dieci anni la cosa migliore che abbiano realizzato è la cover del classico della PFM, Impressioni di settembre.


Insomma, tre album buoni sono pur sempre un gran numero, sebbene Ho Ucciso Paranoia sia uscito nel…99. Ritornando al confronto precedente, gli Afterhours, senza svalutarsi, hanno fatto uscire Folfiri o Folfox giusto un paio d’anni fa, i Verdena hanno pubblicato gli ottimi due Endekadenz, selezionando tra circa 100 pezzi nuovi pronti, inventandosi di nuovo da capo senza denaturarsi.
E non dimentichiamoci che, nel frattempo, sulla scena, sono apparsi tutti i vari Colapesce, Iosonouncane, Cosmo, Teatro Degli Orrori, eccetera…
I Marlene, in tutto questo, hanno galleggiato per 17 anni, tra tentativi di svolte pop, mal riusciti tentativi di partecipazione a Sanremo, il costante tentativo di riproporre versioni alternative del repertorio dei primi anni e tour pseudoacustici in cui, a fianco all’evidente tentativo di mascherare un esaurimento di assi nella manica, Godano ha impassibilmente mantenuto alta la nomea di intellettuale fatto e finito, poeta-musicista nettamente al di sopra della media, giudizioso e giudicante nei confronti di una società evidentemente impreparata alla portata della sua arte. Le sue dichiarazioni sono tutte altisonanti, il suo comportamento nei confronti degli esponenti della stampa e della radio è sprezzante, altezzoso ed antipatico

 "Parliamo di felicità – Cosa li ha convinti ad affidare a voi la quota rock di Sanremo?"

«Il testo. È un testo che comunica valori di un certo tipo in modo non banale retorica o demagogica. Parla di felicità. Sono insofferente nei riguardi di testi che cavalcano scossoni dell’opinione pubblica, anche perché il tempo raddrizza sempre queste cose, perché passata l’ondata sono testi che vanno nel dimenticatoio. Noi parliamo di qualcosa di universale, collegato al feeling della natura umana. In genere le grandi opere d’arte passano alla storia per sondare aspetti torbidi della persona, e gli aspetti solari lasciano meno l’impronta. Il tormento è più affascinante, forse. Quindi può sorprendere che io mi sia soffermato su questo tema. Ma ero reduce da una lettura affascinate, un libro di un’autrice iraniana Lila Azam Zanganeh, Un incantevole sogno di felicità, un romanzo che analizza l’opera di Nabokov, un autore che amo molto anch’io. E tira fuori il suo tratto poco conosciuto, lui era solare e felice, non burbera come appare nelle interviste. È uno degli autori meno lamentosi della storia della letteratura. Ha la complessità di ragionamento tipica dei russi, ma senza lamento. Lui definiva Dostoevski sentimentale, drammaturgo di quart’ordine. Leggendo mi sono reso conto che potessero essere buoni insegnamenti per mio figlio». 


Cristiano Godano - People, 15 febbraio 2012
.
In tutto questo, l’unica cosa che salva ai Marlene è la reputazione che si sono fatti dal vivo, in cui, pare, siano ineccepibili e mostrino una capacità sopraffina nel destreggiarsi sia tra i pezzi del vecchio repertorio che in quelli melensi degli anni 2000.
Nonostante questo, credo che il passo peggiore della loro carriera è stata la partecipazione di quest'anno all’album tributo ai Radiohead, KO Computer.
La partecipazione agli album tributo è sempre un'arma a doppio taglio, può mettere in luce il lato migliore della band, come fu il caso di Mio fratello è figlio unico per gli Afterhours, o la stessa cover degli stessi Afterhours da parte dei Bachi Da Pietra (Punto G), oppure una scelta suicida, come quando Jovanotti interpretò Il suonatore Jones di De André.


Ok rivisitare i Radiohead, e posso capire che quando ti affidano Karma Police in mezzo a tanti altri nomi della scena italiana significa che si aspettano molto da te, ma Karma Police è uno dei pezzi più difficili da reinterpretare, perché da suonare è una cazzata, ma come Yorke non lo canta nessuno.
Ok anche rivisitare Karma Police mettendo in gioco quelle che sono le armi che fanno il Marlene Sound ma, come dice (ahimé) Agnelli, o quell’altro paraculo di Fedez, a X-Factor, ci sono due modi per rivisitare dei pezzi grandissimi. O cerchi di omaggiare la versione originale, cercando di rimanere il più possibile fedele (come ha fatto Agnelli in concerto con Pagani), oppure la rivisiti completamente. Ma ci vuole criterio.


La rivisitazione di quest’anno da parte dei Marlene dimostra che, a conferma della reputazione che si è guadagnata in questi anni, a Godano il criterio gli manca completamente. La sua versione Karma Police che suona esattamente come una canzone dei primi album dei Marlene. Nei suoni, però, si sente l’esperienza accumulata, ed effettivamente sono perfetti.
Godano canta Yorke con quel modo retorico che è diventato il suo marchio di fabbrica, con un autocompiacimento che rasenta l’autocelebrazione, con l'ottica che, di per sé, dare un tocco Marlene nel mettere le mani su un classico intramontabile sia sufficiente.
Invece è proprio l'arrangiamento che non funziona. Per niente.
Fa cacare.
. È semplicemente brutto e sbagliato. Chiunque se ne accorgerebbe. Chiunque, tranne Godano.
E questo perché, evidentemente, a 17 anni di distanza dal suo ultimo buon contributo alla musica italiana, crede ancora di essere sulla cresta dell'onda, il migliore della scena.


P.S:
Lo so che ci tenevate, allora eccovi IL santino nuovo di zecca da mettere sulla finestra.


sabato 25 novembre 2017

Le otto più grandi delusioni musicali italiane di questo 2017 - #5 Manuel Agnelli & Levante

Fino ad adesso abbiamo steso citato tre elementi disillusionanti, nei quali, ad ogni modo, ancora non veniva messa in discussione la dignità o la coerenza della proposta artistica.
Facciamo un recap veloce.
#8 - La rivelazione che i dubbi nutriti per una band formata da amici siano in realtà fondati (The Circle).
#7 - La conferma che uno dei fenomeni musicali più interessanti e da cui ti aspettavi di più lamenti dei seri limiti sia come musicista sia come esecutore (Motta).
#6 L'amara verità che anche il musicista o l'artista più valido di questo mondo non va da nessuna parte senza un po' di fortuna, coincidenze e mezzi appropriati (/handlogic)

Oggi cominciamo a mettere sul piatto dei personaggi le cui scelte hanno messo in discussione la loro integrità artistica (e morale), dividendo il loro pubblico ma generando benefici su una scala più ampia.
Parliamo pertanto de

Le più grandi delusioni musicali italiane di questo 2017 - #7 Manuel Agnelli e Levante
ossia
"Come vendere l'anima al diavolo per sconfiggerlo"


Sappiamo tutti la storia. Questi sono Manuel Agnelli e Levante in una foto scattata questo mese. Dietro di loro, dipinti dal neon blu degli studi della sede di Milano (?) che mette in risalto la camica-vestaglia di Manuel Agnelli, gli appassionati partecipanti delle finte dirette di X-Factor.
Adesso torniamo indietro di una ventina d'anni.


Siamo nel 1997. è appena uscito Hai Paura Del Buio, pietra miliare del rock alternativo italiano. La creatura di Manuel Agnelli sono gli Afterhours. Assieme ai Verdena, rappresentano la risposta italiana ai Nirvana ed all'esplosione grunge che ha preso piede oltreoceano, in cui, nello stesso periodo, il mercato è letteralmente invaso di musica alternativa. Nello stesso periodo sono usciti l'album omonimo degli Alice In Chains, Down On The Upside dei Soundgarden, Tiny Music... Songs from the Vatican Gift Shop dei Sound Temple Pilots, No Code dei Pearl Jam ed Evil Empire dei Rage Against The Machine.
I primissimi Verdena - non quelli del primo disco - sono di fatto sono la copia sputata dei Nirvana con dei testi italiani messi su a caso, e l'attitudine grunge si riflette sostanzialmente nella produzione low-fi, nell'azzeccata similitudine tra il malessere che può indurre la provincia bergamasca e la periferia di Seattle, e nel fatto che c'è di mezzo l'adolescenza ancora tutta da vivere (Luca, il batterista, all'epoca della demo ha solo 14 anni).


Gli Afterhours, invece, sono già degli adulti (Manuel ha qualche mese in più di Kobain) e la maturità compositiva è dietro l'angolo. La loro proposta musicale non è una istitiva riproduzione copia carbone dei Nirvana, non hanno nemmeno né il timbro vocale né a fisicità adeguata (che è invece il caso dei Verdena). La loro è una rielaborazione del linguaggio grunge, ma in chiave profondamente italiana, con una veste cantaturoiale, un tocco personalissimo negli arrangiamenti e nella produzione, che fa da veicolo ad un messaggio forte: la lotta per la libertà d'espressione, l'insofferenza verso la crescente standardizzazione delle mode giovanili - dimostrando, peraltro, una grande lucidità di previsione - la finale presa di coscienza che l'eredità borghese è una realtà, che i sogni di libertà giovanili sono un grido contro mulini a vento, che dentro il Sistema ci cresci, ci vivi e ci muori, sei parte di esso e delle sue contraddizioni, dei suoi preconcetti.
Eccoli quindi a cantare "Porco Cristo offenditi / C'è una dote che non hai / Non è chiaro se ci sei / Sei borghese arrenditi / gli architetti sono qua / hanno in mano la città", vestiti da bambine, come insegna il buon vecchio Kurt, durante il tour di Hai Paura Del Buio.

Manuel Agnelli si era già fatto vessillo dell'alternative italiano fin dai primi anni 90, quando prese parte al progetto Vox Pop, che produsse Africa Unite, Ritmo Tribale, Prozac + e Casino Royale, tra gli altri) e continuò a farlo per mestiere per anni. Fu uno dei primi a portare questo tipo di discorso musicale dentro alla lingua italiana, con Germi nel 1995. Sua fu la produzione del secondo disco dei Verdena (il primo ad avere dei testi comprensibili, Solo Un Grande Sasso), sua l'idea del Tora Tora!, il nuovo festival alternativo italiano itinerante. Dopo un paio una manciata di buoni dischi, un po' di alti e bassi, un tour in america nei piccoli club, sbuca la prima partecipazione a Sanremo. Anche qui, la band milanese fa da apripista alle altre. Si piazzano penultimi ma vincono il premio della critica. Dopo di loro, ci proveranno anche i Marlene Kuntz ed i Bluvertigo, ma con risultati molto meno incisivi.
Segue un periodo di silenzio da cui la band sembra emergere dalle ceneri con la pubblicazione di Padania ed una stupenda riedizione del 2014 di Hai Paura Del Buio con la partecipazione di un panorama di ospiti internazionali (e nazionali, ovviamente) che conferma la reputazione del gruppo (Afghan Whigs, Mark Lanegan, Nic Cester (Jet) e Damo Suzuki (Can). Dopo un tour nei teatri, che ha portato finalmente all'abbandono del batterista, la band è tornata in formissima con Folfiri e Forflox, un disco che ha confermato il talento compositivo di Agnelli che, allo stesso tempo, ha voluto spiazzare tutti accettando il posto nella guria di X-Factor.


Per Levante, all'anagrafe Claudia Lagona, classe 1987, è sufficiente tornare indietro di cinque anni.


La ritroviamo in questa foto dal sapore spontaneo, 24-25 anni, a mangiarsi le unghie circondata da due elementi ricorrenti nelle case universitarie torinesi: divani vecchi, chitarre ed edizioni illustrate di qualche movimento artistico d'inizio novecento. La foto è stata utilizzata per pubblicizzare la serata Banzai! del giovedì sera presso le Lavanderie Ramone di Torino, organizzata con l'etichetta INRI, con cui Levante ha appena firmato. La cosa interessante è che siamo nel 2012, e la promozione virale del concerto è ancora affidata a terzi, ossia, alla crew di amici video-maker di Esma, che al tempo ancora si contendeva il posto sul podio nel cantautorato torinese.


Con Levante, infatti, il giro si stringe. Probabilmente abbiamo una decina d'amici in comune su facebook, il mio ex bassista ha avuto una relazione lunghissima con sua cugina, nel video di Alfonso compare persino Carola Rovito, cantante dei 10135 (la rosha), il gruppo che io ed i miei amici chiamavamo simpaticamente "diecicentotrentaminchia", non solo per l'incosistenza del nome (v'immaginate se i Litfiba, che sta per "l'italiaFirenzeviade'Bardi, si fossero chiamati 50125?), non solo perché quando comparsero all'inizio facevano assolutamente cagare, ma anche perché Carola non piaceva troppo a nessuno ma ce la volevamo portare a letto tutti lo stesso (detto in termini da bar "la minchia gliela..."avete capito). Uno ce la fece anche. Naturale che le cose andarono diveramente da quanto Esma e la sua crew di "cambiatori di mondo" si prospettassero al tempo. Levante è un'artista. Puoi fare musica di merda, puoi suonare anche Ramazzotti, ma se c'hai quella cosa in più sei un passo avanti agli altri. Basta sentirla parlare per sentire che è una cantante nata. Ha una voce unica ed ha un gran talento compositivo. Riesce a scrivere delle canzoni che suonino classiche e non banali allo stesso tempo, che è una cosa che non ti viene insegnata e che personalmente credo dipenda dalla personalità di chi scrive e non da altro, e riesce a metterci dentro al suo vissuto.
Non da meno, Levante è come il buon pecorino, che migliora stagionando. Basta guardare la meravigliosa trasformazione da Alfonso alla copertina coscialunga dell'ultimo album.



Insomma, un'artista musicale al completo. Brava e pure topa.
Tuttavia, a me sembra evidente, dalle scelte stilistiche che hanno accompagnato la sua carriera in questi tre album, la volontà di insersi sempre di più nel panorama musicale a fianco di Irene Grandi, Carmen Consoli e, ahimé, persino Cristina Amoroso, lasciando da parte quegli aspetti che all'inizio l'avrebbero potuta accomunare, nella fase iniziale della sua carriera, ad una Maria Antonietta.
La salva sempre la qualità inecepibile dei testi. Il discorso è che qui il giro di boa sembra essere già passato da un po', anche se, confrontando la sua carriera con quella di Agnelli, si sarebbe tranquillamente potuto aspettare ancora non dico un decennio, ma almeno un lustro per imporre questo tipo di svolta stilistica.


Levante è e rimane un'artista con del talento straordinario. Anche Carmen Consoli lo è, ma nessuno dei suoi dischi fino ad adesso è riuscito ad appassionarmi. Neanche quello "grunge" (Mediamente Isterica), che trovo troppo levigato, abitutato come sono all'orecchio del "cantautorato" di Agnelli e Ferrari. Consoli è un'artista che è riuscita sì a portare un discorso diverso nel panorama pop italiano, ma che non è mai riuscita ad imporsi sulla produzione (un po' la fine che ha fatto Courtney Barnett negli U.S.A., che è uscita dagli studios con un chitarrista in più e dei booster al posto dei fuzz). La rispetto come musicista, ma i suoi dischi non mi arrivano. Per Levante mi sembra un caso diverso, mi sembra che lei, in questo momento, voglia sperimentare delle sonorità che a me non piacciono che, io, come compositore, non sceglierei semplicemente per un fattore estetico: le trovo brutte.


E qui dal giro di boa si arriva alla linea del traguardo. Eliminata, anzi, Bocciata l'ignorante Arisa, simbolo dell'italianità media,
della cocciutaggine di chi non sa e pretende di saperne più degli altri,
dell'arroganza ignorante  di chi pretende di non solo fare da giudice ad artisti esordienti ma
dell'ignoranza arrogante di chi, davanti a milioni di telespettatori, lo fa (la giudice) non conoscendo nemmeno l'opera degli artisti che sono sulla cresta dell'onda nello stesso preciso momento,
come James Bay
eliminata lei, ecco che c'è un post da giudice vacante.
Bocciato anche Alvaro Soler, che ha dato prova di essere l'ennesimo ragazzo arrivato al successo per l'aspetto e non per il talento, assolutamente inadeguato come guida e mentore artistico, la prima persona in assoluto ad avere vinto il talent con una band ripescata, i Soul System, che è arrivata alla fase live solo grazie al ritiro da parte dei Jarvis. Dopo l'edizione Soler si è criogienizzato, probabilmente verra scongelato la prossima estate per un duetto con Enrique Iglesias.

Ecco che quindi i posti vacanti diventano due.
La Sony-Intesa San Paolo-Sky richiama in formazione la Maionchi, che nel frattempo aveva avviato insieme al buon vecchio Elio l'avventura sorprendente dello Strafactor, un'idea a dir poco brillante, un vero e proprio contest a presa di culo che vede protagonista i candidati più improbabili delle varie edizioni del talent.


Resta quindi da fare una decisione importante. Se mettere il posto vacante nelle mani di un'altra rappresentante dell'italietta, che possa fare il mestiere della casa discografica spingendo avanti candidati vendibili e facilmente sacrificabili, senza assolutamente nulla da dire, che possano di fatto piacere al grande (quello che non capisce un cazzo) o se fare la scommessa su un pubblico giovane e diverso e guadagnarsi una nuova fetta di pubblico. Ecco quindi che entra in gioco Levante, sempre giovane come Soler, ma di tutt'altra caratura.
Perché, diciamocelo, forse è Levante la vera novità della trasmissione.
Agnelli lo era per la reputazione da combattente che si è fatto nel corso della sua carriera, ma non dimentichiamoci che prima di lui c'era nientedimeno di Morgan.


Un personaggio che, per quanto risulti controverso, ha messo in piedi una carriera personale forse addirittura più coerente di quella di Agnelli. In un certo senso ha fatto scelte maggiormente destinate al grande mercato ma, artisticamente parlando, ha rischiato molto di più. Morgan non ha mai fatto uscire un album bello ma pur sempre da atterraggio facile come Padania e coi suoi Bluvertigo ha pubblicato un disco più bello dell'altro, mettendo anche in gioco una competenza musicale che ad Agnelli, e a tanti altri, resta preclusa. Morgan, prima di essere un personaggio o un'artista, è un Musicista con la M maiuscola.


Con Agnelli e Levante in contemporanea, invece, la voce del programma è affidata al 50% alla scena "alternativa" e all'altro 50 è rappresentato dalla big label, dai produttori.

A questo punto diventa difficile soppesare le scelte della coppia.
La loro presenza nel talent, oltre a dimostrare che il pubblico vuole essere stimolato e non solo accontentato, ha spostato l'asse delle discussioni su un altro piano. Le scorse edizioni sono state caratterizzate dalla caccia alla voce fenomeno, adesso personalità e tecnicismi sullo strumento sembrano essere all'ordine del giorno. Mettere in gioco grandi nomi e grandi successi sembra non essere sufficiente a passare il turno (vedi la fine della povera Camille Cabaltera) ed, invece, la scelta di puntare al raccoglimento interiore, senza artici retorici, esprimendosi in italiano, viene puntualmente premiata. Per la prima volta si è persino parlato di scale armoniche. Come nella scorsa edizione Manuel demoliva i vibrati, gli acuti e tutti i tecnicimi eccessivi, in questa sono stati presi di mira la pentatonica di Nigiotti e il dilettantistico tentativo di tapping dei ROS.

(pessima prova, suoni di chitarra inascoltabili)




Immaginatevi il fan di Pausini, Ramazzotti, Vasco e Ligabue che sente improvvisamente parlare di queste cose alla televisione e, non capendo, è costretto a guardarsi due video su internet per capire l'argomento.
"Papà, che cos'è un tapping?" "Non lo so, figliolo, lo sai che dicono cose strane solo per darsi importanza". Ma intanto hanno sentito la parola. Qualcuno indagherà. è già un inizio.

Insomma, si può dire sicuramente che la loro presenza abbia innalzato il livello culturale della trasmissione.
Si può dire, volendo, anche che hanno fatto una scelta importante, che li espone mediaticamente ma che allo stesso dà voce ad un movimento che esiste e che non ha modo di esprimersi: almeno, non con la portata del grande pubblico di X-Factor.
Si tratta del cosiddetto "ritorno del capitalismo":
Io, Mc Donalds, sono cattivo, ma ho visto che posso attirare consumatori se faccio iniziative di beneficienza, allora decido di donare cibo ai negrini con la pancia gonfia. Bum. Una singola donazione del Mc Donalds riesce a coprire un anno di donazioni fatte da un associazione benefica. Poco importa se il direttore generale sia un nazista che la domenica picchia immigrati per sport.
Perché? Perché con un solo gesto fa molto di più di centinaia di militanti, anche di quelli impopolari che passano ogni secondo della loro vita a mettere a giudizio ogni abitudine di familiari, amici e conoscenti. Perché? Perché il Mc Donalds ha delle risorse che una qualsiasi associazione benefica se le scorda.
Questa è anche l'arroganza del capitalismo. Il motivo per cui noi povere formiche non abbiamo potere e troviamo sempre più difficile cambiare il mondo intorno a noi.
Basta la donazione di un singolo filantropo a fare la differenza rispetto a centinaia di migliaia di donatori. Lo stesso vale per la presenza di artisti con il background di Agnelli e Levante a X-Factor.

Ma, allo stesso tempo. non basta.
Non basta che la loro presenza sia lì. Non è nato nessun movimento, per cui la cosa potrebbe essere tranquillamente intesa come una farsa.
Una farsa in cui loro sì, si prenderanno dei bei soldi e si piglieranno le palate di merda come conseguenza della scelta di entrare nel Sistema "cattivo", sì l'avranno fatto anche per noi, per dare voce a noi popolo di musicisti-esordienti senza voce,
però dall'altra parte il gioco continua ad avere le stesse identiche regole.
Poco importa che ci siano Levante, Agnelli o Riccardo Salvini degli Indianizer a fare parte della giuria, la carriera di quegli artisti sarà irrimediabilmente condizionata dalle pesanti condizioni contrattuali imposte dalla Sony, che prevede un contratto da 5 anni o da 5 dischi sulla grande distribuzione - per niente facile da sostenere per un esordiente senza veramente tanti, tanti assi nella manica.
Gli unici che ce l'hanno fatta, fino ad adesso, sono Giusy Ferreri, Marco Carta, Noemi e pochi altri che hanno solo una cosa in comune: fanno della musica vomitevole.

I Soul System, ad esempio, hanno venduto 25mila copie del loro primo singolo, She's Like A Star.
Un risultato a mio giudizio incredibile, sicuramente impensabile per loro prima di partecipare al contest, ma troppo risicato per la posizione da big thing in cui si sono ritrovate dopo la vittoria.
I simpatici Soul System si ritroveranno tra cinque anni senza una lira, prosciugati da condizioni contrattuali che porteranno via anche la parte migliore del loro sogno, e con un età media - e, purtroppo, un colore della pelle, nonostante il forte accento veneto - che renderà assai difficile la possibilità di reinserirsi sul mercato del lavoro.
Il fatto è che il pubblico che segue Agnelli e Levante su X-Factor, come me, non vota.
Non facciamo una gran differenza, e sicuramente non in termini numerici. Finché non arriverà un cambio di paradigma più ampio, che porterà ad una rivoluzione culturale, questi fenomeni isolati rappresenteranno poco più che iniziative di marketing per rinnovare di anno in anno l'interesse per una trasmissione in cui lo scontro ideologico attira l'attenzione.
Agnelli e Levante forse non sono lì per noi.
Forse sono solo lì per dare voce ad un'altra, più profonda ed amara verità:
che come musicisti non si campa, e che un'occasione in TV, per quanto difficile possa sembrare scomoda, è un piccolo passo in più verso la pensione.