giovedì 3 maggio 2018

Qualcuno parli male degli Zen Circus


Esistono vari motivi per cui non mi starà mai sul cazzo quel trio formato da Appino, Ufo e Karim Qru.
Ne esistono altrettanti per cui stanno diventando un’ossessione, e purtroppo non solo mia, e comincio ad essere stanco di sentire il loro nome ovunque.
Per carità, Appino! Quasi quarantanni, una gavetta di concerti e successo di tutto rispetto, l’esperienza della strada, del busker in Olanda o dove minchia era, eppure non ha mai perso di vista l’importanza di raccontare storie. Per non parlare della presenza e dei suoni sul palco, tanto di cappello. Niente a che vedere con lo scempio disorganizzato de Lo Stato Sociale, de I Cani, o del frastuono improbabile ed etilico del Teatro Degli Orrori, che pure i palazzetti li riempiono.
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Il problema sostanziale degli Zen Circus è un altro: la musica

Cari Zen Cirucs, ma dove cazzo è finita la vostra musica?
Dove cazzo sono finiti i Violent Femmes di cui si sentiva tanto parlare nei dischi degli esordi, i Weezer, i Velvet Underground e tutti quegli altri? Dove sono finiti gli strumenti degli Zen Circus? Non mi vorrete mica cercare di dire che il sound che avete adesso è il vostro, dov’è finito quel bel tiro aggressivo di una volta?
E poi, Voi della Critica. Qualcuno, per favore, mi faccia piacere, ritorni a parlare
del La Musica!
Ho una spiacevole sensazione che mi perseguita da mesi. Sembra che, in questo paese, se sei capace di dire qualcosa di carino, e di avere qualcuno coi mezzi che ti permetta di dirlo a voce alta, diventi automaticamente un musicista coi controcazzi: ma qui siamo quasi arrivati al paradosso.
Fermiamoci un attimo.
Ragioniamo.
Sto incontrando delle serissime difficoltà a trovare una brutta recensione de Il fuoco in una stanza. Vi giuro, mi sono sforzato. Qualcuno si è limitato a dire che forse non è il disco meglio riuscito. Nessuno dice che la musica faccia cacare. Niente. Stando ad Ondarock, è il loro migliore album in venti anni di carriera, ma la mia etica di musicista esordiente e nerd della musica mi impone di dire a voce alta che è una cazzata enorme.
L’album è uscito all'inizio di quest'anno, e pareva che questa volta fosse stato proprio Appino a voler mettere le mani avanti, imponendo delle scelte stilistiche che lo avevano portato, in precedenza, a registrare dei dischi da solista. Lo apevo già che con questa premessa il disco probabilmente non mi sarebbe piaciuto, perché avevo apprezzato l'onestà intellettuale del cantante di non contaminare il progetto degli Zen. E tutto sommato, fino a che esisteva Appino ed esistevano gli Zen, non era andata poi così male: Andate tutti affanculo (2009) era stato l'apice creativo degli Zen, un disco unico, fuori dal coro, che aveva portato a galla una rabbia pulsante, un'ironia amara, per niente qualunquista e superficiale, calata nell'italianità, senza cedere all'indie anglosassone si sentiva ovunque, anzi, rifiutandolo a pieno titolo a favore di una forma canzone più semplice, immediata, forse più vicina ad un certo pop rock degli anni 60. Nati per subire (2011) sembrava quasi la continuazione del disco precedente: un manifesto isolato di una generazione, un dipinto di realtà periferica, due tacche sopra rispetto alla retorica da social dei Cani, o de Lo Stato Sociale. Eppure qualcosa, musicalmente parlando, si era già incrinato in quel 2009, con quel divertissement che erano i quattro accordi di Andate tutti affanculo. Sono convinto che Appino fosse intenzionato un po' a prenderci per il culo quando l'ha composta. Eppure, ascoltando Nati per subire, si sente già che i riff si indeboliscono, nonostante la qualità cristallina dei testi. Basta ascoltare Il qualunquista, il secondo riff che si ascolta in Nati per subire, o l'intermezzo di Atto secondo, che non è che il ritornello di Andate tutti affanculo, cantato tale e quale.



(lai la, lai la, lalalala lai la... eddai, inventatevi qualcos'altro

Nel 2013 era uscito l’Appino cantautore, non proprio di mio gusto, che però aveva permesso ad Appino di ottenere quei riconoscimenti necessari per ottenere fiducia in sé stesso e scrivere un capolavoro come Viva (2014), forse uno dei pezzi che rimarranno nel nostro immaginario collettivo anche tra vent'anni. Viva, così priva di slogan facili, riesce a fare breccia senza essere un pezzo politico, e menchemeno fare ricorso a facili qualunquismi. Viva è il fotogramma perfetto di un momento storico, non di una generazione in particolare, ma di una sofferenza condiviso che non aveva voce, del dramma irrisolto di migliaia di persone condannate ad un'esistenza relegata fuori dalla superficialità ed allo stesso tempo ingabbiate dentro ad una situazione storica e sociale che impedisce di fiorie, di sbocciare, di coltivarsi. 


Tuttavia, il problema della scialbezza delle soluzioni musicali degli Zen, volendo lo si può ritrovare anche in Viva. Andando avanti con l'ascolto, si può sentire il tema insopportabile di Postumia. Non è bello o brutto: semplicemente non sa di nulla. Bastano i primi tre secondi per chiedersi: ma io, davvero, voglio ascoltare questa roba? Se si eccettua quel guizzo imrpovviso di vita nel sentire gli eco dei Calexico di Dalì, l'intero album dal punto di vista musicale è piattissimo, se non insignificante. L'album propone anche Canzone Contro la natura, la prima di una lunga serie di pezzi costruiti a tavolino per far saltare la gente dal vivo, uno più scontato dell'altro, con quel riffone scopiazzato suonava già vecchio trent'anni fa ed un ritornello semplicemente inascoltabile. 


Ed è più o meno a questo punto che però Appino ha vinto la targa tenco, ed ai concerti degli Zen, comunque, la gente è presa bene e si poga. L'attesa ha dato i suoi frutti, tutti sono ancora così sconvolti da quanto Viva incarni lo zeitgeist dell'Italia "che vive in un monolocale fatiscente e che non vuole ma forse dovrebbe votare cinque stelle" per dimenticarsi dell'affronto inaccettabile che è Postumia. Appino, che si è fatto praticamente lo studio in casa, decide allora di fare un disco più o meno su ogni cosa che partorisce, ed ecco che così nel 2016 arriva La Terza Guerra Mondiale, trainata da un singolo banale come Ilenia. Un altro riffone da quattro soldi, l'idea del video rubata pari pari a The View From Afternoon degli Arctic Monkeys (ma con una bella fica, per non dimenticare di mandare il messaggio che per Appino è arrivato il momento di trombarsi tutte le fan ventenni) e la prima vera cessione alla scena "indie" contemporanea (che poi in realtà già cinque anni buoni di storia ce li aveva, ma capirai: le chitarre non vanno più!): gli odiosi synth rubati al revival new wave degli anni 80, proprio quelli di Stato Sociale, Cani & di tutto ciò che odiamo, che quasi gli anni 80 della Donatella Rettore ce li fanno rimpiangere.


Dopo quindi aver semplificato il songwriting, dopo aver preso la decisione di produrre praticamente ogni cosa partorita dal gruppo, la qualità esecutiva di Appino stesso è irrimediabilmente peggiorata. Alcuni avevano pensato che L'anima non conta era un gran pezzo rock. Tutto sommato, anche se ricorda un po' un Ligabue dei vecchi tempi - ebbene sì, i termini di paragone son questi - sarebbe una cazzata dargli torto. Eppure l'altro fattore che mi irrita quando ascolto gli Zen Circus è perfettamente tangibile in questa canzone: è la voce di Appino.
Il problema però è che Appino sa cantare, e sa cantare in un modo che mi piace molto. Eppure nel corso degli anni  si è fatta odiosa ed "appesantita" inutilmente, con una zeppola sempre più presente. L'anima non conta non è un brutto pezzo, tutto sommato. Il problema è che è cantato da schifo. La linea vocale non funziona propria, la melodia vocale è proprio costruita male. Questo perché, mentre gruppi come il mio o quello dei Verdena scrivono una linea vocale in inglese, o a versi, e poi ci mettono su, faticando come dei matti, un testo, Appino si limita semplicemente a "incastrare" magicamente tutte le parole che dice nella musica scritta a parte, ma non ha bisogno di chiedere feedback a nessuno, perché sa che qualsiasi cosa partorità avrà comunque la critica, e l'effetto pecora, dalla sua parte.

(anche qui, fiche ventenni mezze scoperte...ve l'avevo detto)

A questo punto dovrei mettermi a parlare dell’ultimo album, ma non lo farò. 
Per tre principali ragioni, una delle quali è questa, tratta dal disco The Zen Circus and Brian Richie, pubblicato ben dieci anni fa, che si dovrebbe commentare da sola.
A mio parere qui siamo vicini all'apice musicale di tutta la carriera degli Zen Circus, col suo sapore spudoradicamente retrò, la sequenza facilona del ritornello, i suoni semplici e la voglia di fare musica per divertirsi. C'è un motivo per cui suona così bene: non sembrano loro. Il suono sarà impersonale, la voce di Appino strafunziona, come del resto funziona tutto quanto.

 
Il secondo motivo, già citato, sempre la voce di Appino: inadatta all'italiano, perfetta in inglese.
Terzo e ultimo, ma non per importanza, è che tutto l’impianto musicale degli Zen, se togliamo i pezzi in cui suonano esattamente come i gruppi che li hanno influenzati, non ha assolutamente niente da regalare. Il sound è "vecchio" di per sé, data la formula del gruppo, ma questo è il meno. I riff che meritano si possono contare sulle dita di una mano, o di due in tutta la discografia post Nello Scarpellini, i ritmi sono sempre dritti e senza sorprese, invece le canzoni introdotte da riff completamente inutili ed insipidi, come quello di Emily No, abbondando ampiamente. Eppure il talento per scrivere della roba interessante non manca, basta pensare al lavoro eccellente di Karim ne La Notte Dei Lunghi Coltelli, o a casi isolati come L'Amorale. Ancora meglio, in un pezzo sottovalutato come It's paradise, si può dire che gli Zen Circus abbiano realizzato il compito che centinaia di altri musicisti avevano tentato spesso timidamente o catastroficamente, di resuscitare il fascino di De André. It's paradise, che il fan medio degli Zen Circus probabilmente non conosce nemmeno, nella sua parabola apparentemente innocente, con quel suo andamento apparentemente disimpegnato da "banda del circo Zen", racconta il tema della morte, per circa quattro minuti, in maniera analoga, sebbene senza alcuna pretesa di somiglianza, a come De Andrè aveva raccontato la guerra nel suo Girotondo, che è una delle poche canzoni che riescono a commuovermi dopo centinaia di ascolti.






Poco importa se passati nove anni la produzione è di tutt'altra qualità, poco importa se Karim si presenta alle interviste indossando magliette di oscure formazioni dell’hardcore punk americano, poco conta che abbiano chiamato Francesco Pellegrino per curare meglio le chitarre. E, soprattutto, poco importa che quel primadonna di Lodo Guenzi li abbia definiti in diretta TV “la band migliore della nostra generazione” – dimenticandosi forse dell'esistenza dei Verdena
Piccola parentesi: ti prego, Lodo, continua a fare il presentatore, basta che la smetti di stonare e di comporre musiche. 

Dicevo, i testi da soli non li salvano perché, oltre a quelli, agli Zen non rimane pressoché nulla.
Vorrei farvi presente che i dischi degli Zen ce li ho tutti. Ci ho creduto fino alla fine, perché mi piacciono come persone, mi riconosco nel loro modus pensandi e sono capace di commuovermi davanti ad alcune dichiarazioni rilasciate da Appino nelle interviste. Ce li ho tutti, e per tutti non intendo da Doctor Seduction in poi, com'è abituato il pubblico che passa attraverso il collo di bottiglia di Spotify, ma dall’oscuro “About thieves, farmers, tramps and policemen” , autoprodotto, che fu pubblicato nel 1999 ancora sotto il nome The Zen.
Vorrei consigliare a tutti i fan degli Zen - non quelli dell'ultima ora, capaci come sono di ascoltare persino Sfera Ebbasta - di andarselo a sentire, il disco dei The Zen. L’album è reperibile solo su Rockit, su cui è possibile leggere una recensione risalente al 2001 che riporta questo monito: 
“tenetevi pure i vostri Afternoiahours, ma lasciatemi i miei The Zen”. 
Era il 2001, però chi ha scritto l'articolo aveva ragione. Nel 2001 gli Zen erano veramente una novità. Noi (dico noi, ma avevo si e no una decina d'anni) ci trastullavamo con la nuova scena alternativa (indie non si diceva ancora) italiana, e ci sentivamo tutti degli intellettuali solo perché sembrava che Godano, Agnelli e Ferretti, in qualche modo, coi loro versi pomposi e ricercati, ci regalassero ascoltatori una specie di aura colta, ipocritamente controcorrente. I ventenni The Zen, dal canto loro, si autoproducevano a Livorno, senza la pretesa di portare il noize nel cantautorato, ma con la volontà di fare del punk acustico di qualità, libero da schemi e mode e fuori dal tempo, con un schiettezza e semplicità che quasi sembravano scomparse dai giri della musica alternativa. Con la volontà di mettere su una musica quasi da circo, da cantare in tutte le lingue del mondo (gli Zen hanno inciso in inglese, in francese, ma anche una canzone in sloveno, Narodna Pjesma).


Ahimè, sono passati ben 19 anni da quel disco, ma a quel tempo ne erano passati solo 15 dall’esordio dei Violent Femmes. Forse dovremmo ragionare anche su questo.


Ascoltando i primi due dischi degli Zen – e, tutto sommato, anche quei due che vengono dopo – mi sono reso conto che la voce del ventenne Appino, un po’ più puerile e stridula, era perfetta per lo scopo, per i Violent Femmes italiani dei 2000. La faccenda è degenerata in seguito, un po’ per la scarsa attenzione che questo Paese dedicata alla produzione musicale interna in lingua straniera, un po’ perché forse nessuno si è reso conto che la direzione musicale stava andando nella direzione sbagliata. Ce ne saremmo potuti accorgere già nel 2005, quando ascoltammo per la prima volta Aprirò un bar, il primo loro manifesto della realtà di periferia, la prima dimostrazione dei limiti della voce di Appino in italiano.


Di lì in poi, i pezzi degli Zen si sono elettrificati, appiattendosi su uno standard musicale non minimamente all’altezza rispetto alle grandi proposte del panorama nazionale del circuito alternativo e non. Un rock-pop sicuramente con dei testi di grande valore, ma privo di un supporto musicale adeguato. In questo senso Ragazzo Eroe, che risale ormai a sette anni fa, si può considerare un piccolo gioiellino in mezzo ad un mare di merda, e perché recupera prepotentemente l'influenza dei Violent Femmes dei primi dischi. Lo stesso discorso si potrebbe anche dire per il simpatico ep Metal Arcade Vol.1, in cui i membri del gruppo si divertono a scambiarsi il microfono ed ad incattivire i suoni, dimostrando di saperlo fare anche con gran classe. Un peccato, perché forse è il disco che si fa ascoltare meglio, quello più godibile all'ascolto. 


Appino avrebbe potuto continuare a tirare schitarrate veloci e cantare piccoli stornelli, avrebbe potuto mettersi a fare del buon punk in inglese,
In Italia spesso si dimentica che c'è una grandissima dignità nel riconoscersi in una scena estera, nello scrivere canzoni in inglese affini a gruppi che ci piacciono. Questo comportamento viene puntualmente bollato come mera emulazione, ed in questo modo, gira e rigira, le uniche proposte che arrivano al grande pubblico sono sempre quelle più scontate, più banali e puntualmente in ritardo sulle tendenze americane o inglesi. Eppure sono pochissimi quelli capaci di catturare l'essenza dei Violent Femmes.
Gli Zen Circus avrebbero potuto privilegiare certe scelte e diventare uno dei nostri gruppi preferiti.
Ahimé, al contrario, man mano che Appino si è allontanato dal modo di cantare proprio, ad esempio, de L'egoista, man mano che la proposta musicale degli Zen si è allontanata al grintoso punk folk degli esordi,
si è avvicinato sempre di più i favori di una critica sempre meno interessata alla proposta musicale vera e propria e sempre di più al personaggio, al messaggio, all'immagine, e che di lì a poco si sarebbe fatta le orecchie persino agli abomini de Lo Stato Sociale, de i Cani e di Calcutta, che avrebbero fatto finalmente a pezzi quel poco che rimaneva della dignità della canzone italiana.
Da questa mandria di incapaci travestiti da musicisti che riempiono i palazzetti ed i teatri vorrei salvare due artisti: Motta e Mannarino. Sul secondo non credo nemmeno di dover dare motivazioni, perché è forse l'unico autore di musica tradizionale d'autore che gode di un certo hype, a mio parere pienamente meritato. Di Motta, oltre ad una certa affinità nel background culturale e musicale, apprezzo che, a differenza degli altri, non si vergogna di cantare:
di cambiare accordi no/ non me ne frega niente 
nella title track del suo ultimo album, Vivere o morire. A differenza de Il fuoco in una stanza degli Zen, il disco di Motta è fatto di composizioni estremamente semplici ed arrangiamenti minmali, estremamente accorti, che funziona nel suo tentativo di rimanere dentro al seminato.
Purtroppo, però, l’Italia non è un Paese in cui si parla di musica quando si parla di musica.
Pensate all’exploit di Calcutta, all’ingigantimento del fenomeno di Lucio Corsi, ai Cani, allo Stato Sociale.
Il motivo per cui si parla degli Zen Circus, oggi, non è mica perché hanno inciso un buon disco. Oggi si parla degli Zen perché sono la nuova big thing, il nuovo fenomeno indie per quelli che hanno bisogno del nuovo effimero fenomeno indie. Tutti sono interessati all'aria maledetta di Appino, all'aria rovinata di Ufo. Hanno un che di nuovo e sono unici rispetto al resto del panorama indie: innanzitutto non sono nuovi per un cazzo, perché sono in giro da vent'anni. Poi, la loro aura di gente integra, intelligente e non paraculata li paracula agli occhi dei detrattori dei paraculi come i Cani e Lo Stato Sociale (come me).
La qualità della scrittura dei testi li rende appetibili anche al vecchio pubblico, quello della “velleità” della poesia in musica, ed allo steso tempo immuni da chi è detrattore dell’eccessiva semplicità della scena indie attuale, che invece ha la pretesa arrogante di fare arte o opinione buttando quattro righe su un ritmo rubato ad un scena indie americana o anglosassone (rapida carrellata: Lucio Corsi, Cani, Calcutta, Venus in Furs ed in generale tutta la schiera di rockerini di Phonarchia Dischi, ecc…). Ora, capisco che gli Zen sono veramente dei bei tipi umani, tutti e tre, anzi probabilmente tutti e quattro, e capisco che, per l'italiano medio, quello sanremese, accendere la televisione e ritrovarsi questo spettacolo sia un'esperienza assolutamente inedita:




E, se mi metto nei loro panni, lo capisco. Hanno un look, un modo di fare, un sound, persino un modo di raccontare attraverso la musica, che non è di nessun altro. O, meglio, che di sicuro non è mai stato visto dal grande pubblico all'interno del cantautorato italiano post De André. E quindi mi vien da pensare che forse è una fortuna, che forse devo spostare il mio dialogo solipsistico ed accogliere un'opinione più condivisa.
Ciononostante, dopo appurate ponderazioni, mi rendo conto che io non sono quel pubblico, io non sono l'italiano medio, io non posso giudicare, anzi scontare un'artista di un determinato giudizio solo perché la maggior parte del pubblico è così ignorante. Mi rendo di far parte di un elite culturale del mondo musicale del mio Paese ed è giusto che pertanto continui a parlare con i termini corretti. Mi sembra giusto che tocchi a me, che seguo gli Zen da anni, da "musicista", se musicista possiamo definiere me o lo stesso Appino, che gli ultimi tre dischi degli Zen musicalmente non valgano un cazzo e che si salvano solo per la qualità delle liriche, perché nessuno, e dico nessuno, lo sta facendo in questo momento.

Ancora una volta, però, il problema è che tutti si son dimenticati di parlare della musica.
Se volessimo parlare veramente di musica, allora dovremmo stare ancora parlare dei miracoli degli ultimi anni come Blackstar di David Bowie, o di 22, A Million di Bon Iver, di Kendrick Lamar, di Ty Segall.
Ma chi cazzo sono, al confronto, gli Zen Circus?
Appunto.
Chi cazzo sono tutte le altre formiche che ho citato prima?
Gente, usate internet: ormai la musica è gratis!

E quindi niente, mi fermo qui. Vi lascio dedicando il mio spazio alla riflessione di questo tizio romano, Fulvio Venanzini, che si dichiara di non essere nessuno e di non contare un cazzo e che parla liberamente davanti alla sua webcam, commentando gli autori della scena indie contemporanea. È stato il suo commento su Calcutta a smuovere l'esigenza di scrivere questo articolo:
Voi dite che dovrei ascoltarmi l’intero album, ma io non ce la faccio. Ho altro da fare. Non posso perdere tempo ad ascoltarmi la discografia di Calcutta sapendo che, ad esempio, Omar Rodriguez nel 2016 ha pubblicato 12 dischi.”

Gente, ritorniamo a parlare di musica.
Ogni volta che trovate un articolo di un'opinione che non condividete, pubblicatene un altro e fornite l'opinione opposta. La critica musicale è ormai un'operazione di mercato: sono le persone come me e Fulvio quelle che vi danno un parere non condizionato.




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