Che rubrica scurrile. Mi chiedo come
faccia ad avere 28...ah beh lasciamo perdere. Sono solo 28.
Non so chi sia che mi abbia passato
questo titolo. A volte la gente non sa proprio più che inventarsi.
Non era meglio mettere una bella fica nuda in copertina, tipo
questa?
Ecco, bene. Adesso ho la vostra attenzione. Grazie,
torniamo all'argomento del discorso.
Gli Alt J. Il gruppo più unico, più
alla moda ed alternativo del mondo. Su di loro ci eravamo già
espressi nel nostro precedente articolo in dodici volumi (che però
potete trovare in comodato cibernetico proprio qui). Insomma, gli Alt
J sono il gruppo che è riuscito a cavalcare quella “magnifica
onda” (“awesome wave”) di modaioli spocchiosi che sono gli
hipster ed a imporsi come i colossi musicali di questa nuova decade.
Il secondo album è la grande prova per capire se tutto quanto si
è detto sui ∆ fossero solo chiacchiere o se, in fondo, sotto quei
baffi levigati con sterco di struzzo, recintati sotto quei pantaloni
almeno due taglie inferiori alla misura delle gambe, si nasconda veramente
del talento.
This Is All Yours, insomma, è l'album della consacrazione o della condanna.
Intro
Arrival In Nara
Nara
Every Other Freckle
Left Hand Free
Garden Of England - Interlude
Choice Kingdom
Hunger Of The Pine
Warm Foothills
The Gospel Of John Hurt
Pusher
Bloodflood pt. II
Leaving Nara (Bonus Track)
A mio parere, li lascia così, a metà.
Vi dico, aspettavo quest'album con
ansia. Non tanto perché volevo rovinare gli Alt J. Mi piacciono.
Quando ero adolescente e pieno di brufoli, mi capitava ogni tanto, tra una sega e l'altra, di mettermi a studiare chitarra. In quei piccoli e febbricitanti momenti creativi, mi ritrovavo a sfornare un
sacco di giri come i loro. Se avessi avuto un po' più di talento nel
falsetto e non mi fossi spaventare dall'elettronica (stupido
idealismo), a quest'ora Something Good potrebbe avere il mio nome
scritto sopra. Proprio per questo mi piacciono gli Alt J. Sono capaci di
prendere dei giri banalissimi e dargli un taglio che hanno solo loro.
Ma il merito non è del cantante Joe Newman,
che peraltro usa solo le dita perché in vita sua ha suonato solo la
classica (cosa assolutamente anomala per un musicista indie di
successo), ma neanche di Occhiali-e-Nasone Gus Unger-Hamilton, che mi ricorda tanto un
mio amico che mi propinava dall'anfetamina alla salvia divinorum e
poi all'esame prendeva 27 mentre tutti noi ci credevamo dei geni col
nostro misero 21. Il merito è di quel gran figlio di puttana di Thom Green,
che suona la batteria in una maniera del tutto sua, e del biondino idrofobo che ha mollato la band. Lui scriveva le parti
di chitarra e di basso, di che cosa sarebbero sopravvissuti gli Alt J?
Da questo punto di vista, io trovo che
non solo This Is All Yours abbiano dimostrato che gli Alt J sono sopravvissuti, ma anche che hanno avuto le palle di proporre qualcosa decisamente più maturo e meno orecchiabile.
Pene, invece, un po' di meno.
This Is All Yours è un album
decisamente più coraggioso rispetto al precedente, innanzitutto
sulla base del fatto che veri singoli non ci sono ed i pezzi girano
generalmente nell'introspezione, se non si affidano alla sola voce e
chitarra (Pusher). È un album riflessivo, che concede meno spazio alle
strizzate d'occhio. Quello che manca è un vero singolo che trascini.
La promozione ha voluto fare affidamento ai due pezzi dove gli
ammiccamenti sessuali alle fan sono più evidenti - la sciapissima e dimenticabilerrima Left Hand Free, dagli inquietanti echi sixties - e
Every Other Freckle, ma mentre la prima delle due non c'entra un
cazzo col resto dell'album e avrebbe meritato un singolo (o un ep,
che fa molto vintage e piace a certi fan), il secondo pezzo ha un
incedere troppo prevedibile, un ritornello non troppo orecchiabile ed
un momento strumentale assolutamente inutile.
Un singolo mancato è invece The Gospel of John Hurt,
che se inizialmente fa gridare al miracolo ricordando certi Radiohead
di OK Computer (ma, ahimé, si tratta solo di una voce
computerizzata), in seguito si trasforma in un vero e proprio inno da
stadio.
Un fallimento, quindi. Gli Alt J, il gruppo che ha costruito
la propria immagine sullo stupore, al secondo album dimostrano di
essere legati ai loro stessi cliché più di ogni altra cosa al
mondo, e per di più per rilasciare un album moscio, incapace di
graffiare e di comunicare, se consideriamo che i testi, rispetto
all'album precedente, non hanno fatto il minimo progresso.
Resta, però, un piccolo barlume di
speranza, racchiuso proprio nei primi 4 minuti dell'album.
La intro, che quegli stupidotti di Leeds non hanno mai utilizzato per aprire i loro concerti, è un
capolavoro. Ci sono più idee in quei primi minuti che nel resto
dell'album. Perché?
Non condivido ciò che dici, ma sarei disposto a dare la vita affinchè tu possa dirlo.
Voltaire
Siamo arrivati alla soglia del
trentesimo post e finalmente abbiamo avuto i primi riscontri ed i
primi contatti da parte dei nostri lettori. Abbiamo deciso quindi di
concedere un po' di spazio per delle spiegazioni.
In primo luogo, vogliamo rispondere
all'osservazione fattaci da una ragazza che per correttezza
chiameremo T.C (Tizia Caia), la quale, indignata per il ritratto
impietoso che facevamo della città di Torino, ci invita con falsa
cortesia (del resto, come suole dire il proverbio “piemontese...”)
a viaggiare di più per allargare i nostri orizzonti culturali e
definisce il nostro articolo sugli Eugenio in Via di Gioia come
“leccalulo”, infine ci chiede quale sia lo scopo a cui vuole
pervenire l'autore dell'articolo.
In risposta a T.C., ed a tutti
coloro che hanno sentito un moto di risentimento alla lettura del
nostro articolo (che può vantare di essere stato letto quasi
seicento volte) sugli Eugenio in Via Di Gioia, noi rispondiamo che va
benissimo così, che offendersi è una reazione sanissima e che,
anzi, è lecito parlare male di quello che non ci piace. Ed a questo
punto la faccenda diventa un po' più complicata, se non
paradossale.
Per rimanere informati delle fanfaronerie che
scriviamo nei nostri post, infatti, il metodo migliore è proprio
schiacciare Mi Piace sulla nostra pagina. In questo modo i nostri
disturbanti post compariranno sul vostro feed e sarà più facile
lanciare una campagna moralizzante. La procedura è semplice, esiste
un pulsante apposito in alto a destra:
Il passo seguente (non per forza
necessariamente a seguito del primo, ma caldamente più consigliato),
consiste nel cercare l'articolo offensivo e schiacciare il pulsante Condividi.
Si può anche aggiungere un bel
commento negativo, e ve ne suggeriamo alcuni solitamente tra i più
gettonati:
“gente che dovrebbe morire” -
rancoroso ed efficace, ma con possibili strascici sul piano legale
“come si permette certa gente di
insultare così la mia città?” - patriottico
“ma chi cazzo si credono di essere”
- il più tipico
“questi soffrono di sindrome da
pisello piccolo” - stile parlamentare berlusconiana
“ma che cazzo” - semplice, ma meno
efficace
Come, del resto risulta implicito, il
vostro sdegno (data anche la propensione della maggior parte della
gente ad indulgere nella deprecazione) rappresenta per noi ottima
pubblicità.
Le vostre opinioni ci interessano, che
siano esse contrarie o favorevoli, secondo il principio per cui un
certo Dandy sovrappeso diceva: Non importa che se ne parli bene o
male, l'importante è che se ne parli
e ricordiamo che il blog è
concepito come piattaforma interattiva e di dibattito, per cui è
possibile commentare direttamente in fondo alla pagina: basta
accedere con Google.
Ora, alla luce di quanto detto,
possiamo quindi passare a parlare del termine “leccalulo” e della
presunta “intenzione secondaria dell'autore”.
In primo luogo, come si può desumere
da quanto appena terminato di dire, il termine leccalulo è
inappropriato ed inadatto. La nostra è stata una recensione
favorevole, ma il nostro obiettivo principale è quello di parlare
apertamente, liberamente e, se possibile, di ottenere una certa
visibilità. Il leccaculo ha sempre come secondo fine quello di
ottenere dei favori o delle attenzioni particolari. Scrivere un
articolo negativo sugli EIVDG ci avrebbe sicuramente dato molta più
visibilità perché avrebbe scagliato su di noi l'ira dei fan, catalizzando così su di noi le attenzioni di cui avevamo bisogno.
Per quanto riguarda la sottile frecciatina ai presunti “secondi
fini”, quindi, rispondiamo che (ed abbiamo tanti articoli dalla
nostra parte, basta che li leggiate) il nostro interesse resta solo
quello di scrivere in maniera libera ed appassionata, con
un'attenzione principalmente rivolta verso la musica e gli
atteggiamenti che costituiscono l'immagine del musicista, fuori e
sopra il palco, per cui, se vogliamo osannare gli Eugenioblablabla o
i Fanali Di Scorta, lo facciamo semplicemente perché pensiamo che se
lo meritino.
Ma già che siamo arrivati qui, allora, ci sembra
giusto rispondere ad altre due domande/osservazioni molto più
pertinenti, che sono: 1)“come mai siete tanto fissati con la
figura del personaggio costruito?” 2) “chi vi dà il diritto
di esprimervi mettendovi su un piedistallo?”
Parte 1: la responsabilità morale
dell'artista
Per rispondere alla nostra fissa sugli
“atteggiamenti del musicista, fuori e sopra il palco, rispondiamo
citando un articolo del nostro Grande Maestro, Musa ed Ispiratore,
Lester Bangs.
Quello che segue è un estratto di un
articolo chiamato “Pop, torte e divertimento: programma per la
liberazione delle masse sotto forma di prescrizione degli Stooges
ovvero “Chi è l'Idiota?” pubblicato dalla rivista americana
Creem nelle uscite di novembre e dicembre 1970. L'articolo è
anche presente nella raccolta “Guida Ragionevole Al Frastuono
Più Atroce” pubblicato in Italia da Minimum Fax nel 2005.
(se non avete il tempo di leggerlo, ci sono sempre le parti evidenziate in grassetto)
L'altra sera io ed un mio amico ci
stavamo fumando una canna guardando in tv il Cincinnati Pop Festival
[...]. La maggior parte del concerto è stata noiosa e concentrata su
gruppi come i Grand Funk […] col cantante che si contorceva e
abbiaiava e s'inventava nuovi testi come “Tesorino, ho così tanto
bisogno del tuo amore … su dammelo … oh topina mia, ecc” ed i
Mountain, con Felix Pappalardi che infilava assoli noiosissimi ed
interminabili […] mentre quel ciccione di Leslie West,tutto vestito
di pelle scamosciata, ci dava dentro con la chitarra e reagiva alle
futilità di Pappalardi con larghe smorfie angosciate e felici,
storcendo la bocca e sghignazzando e annuendo come se ogni singola
nota che usciva dal basso […] lo stesse mandando fuori di testa
come nessun'altra musica prima di allora. Io guardavo tutte quelle
pagliacciate con un occhio mentre passavo in rassegna la mia libreria
alla ricerca di un libro con cui passare il tempo finchè Iggy Pop
non compariva sullo schermo, e quando è comparso è stato bello –
non quanto guardare Carlos Santana che faceva gli occhi strabici e
quel coglione di Contry Joe che compitava la parola FUCK nel film di
Woodstock, badate bene, ma era comunque una bella scena – però la
parte più stuzzicante del concerto è arrivata durante l'esibizione
di Alice Cooper e soci (che, per quanto sia fastidiosa e stridula la
loro isteria da checche anfetaminiche, non si possono certo accusare
di prendersi troppo sul serio – se ci fosse una rivoluzione, non
verrebbero fatti fuori come Pappalardi e West e George Harrison e
tutti gli altri), quando Alice si è accucciato, si è gettato il
mantello gonfio sopra la zazzera sparata, come il saio di un monaco,
mostrando il petto plastificato dagli ormoni, e si è messo a
camminare facendo la papera, come un Chuck Berry in preda a un incubo
indotto dal giusquiamo, fino al proscenio, dove ha estratto un
orologio dalla tasca, l'ha azionato con aria ipnotica e ha cominciato
a salmodiare, in tono calmo e colloquiale “I corpi … hanno
bisogno … di riposo”, ripetendo sempre con lo stesso ritmo finché
lo spiritosone di turno […] che era tra il pubblico a poco distanza
da lui non ha gridato “ E con questo?” Bella domanda. Vi
immaginate se qualcuno dicesse “E con questo?” quando Richie
Havens attacca tutto convinto con la sua Freedom? Naturalmente è una
domanda stupida, dato che ci sarebbero subito una trentina di fan
devoti di Richie Havens che si precipiterebbero a smazzolare lo
zotico boccalone, se non addirittura a farlo secco […]. Ma a
nessuno frega un cazzo di quello che dicono ad A.C., men che meno
allo stesso A.C., che forse era addirittura deluso di non aver
suscitato più lazzi dalla piccionaia, se non che due minuti dopo ha
ottenuto reazioni dal pubblico in abbondanza, quando un tiratore
provetto nascosto tra la folla gli ha lanciato un'intera torta […]
che l'ha preso in piena faccia. E come ha reagito? Come ha recuperato
la veneranda e sacra dignità dell'artista durante l'esibizione, che
rivendica il palco come un campo magnetico personale, tutto suo dal
quale abbagliare e divertire il pubblico indifeso? Bé, si è tolto
dalla faccia un po' di appiccicume della torta e se l'è spiaccicato
di nuovo sul muso, spalmandoselo bene sui pori e sugli occhi e
leccandosi il dito ogni tanto di soppiatto Ha ripetuto quel gesto un
bel po' di volte, spalmandoselo in faccia per bene. Il pubblico non
ha osato dire nulla.
Lo scopo di tutto ciò […] è farvi
notare che per certi aspetti Alice Cooper è meglio di Richie Havens
[…] perché almeno con Alice Cooper si ha il privilegio di
esprimere in maniera creativa la propria reazione al concerto. La
maggior parte dei divi del rock intimidiscono a tal punto il pubblico
da essere nauseanti. Ah, sarebbe vera giustizia se tutti i divi del
rock dovessero trovarsi a fronteggiare il tipo di reazioni che A.C.
provoca nel pubblico, se diventasse prassi comune tirare torte in
faccia ai musicisti che secondo il pubblico stanno sparando cazzate
[…]. Perché i rocker più famosi sono circondati da un'aria
mitica, da “superstar”, ed è una faccenda pericolosa, anzi è
proprio questo il virus che sta mandando a puttane il rock […], che
infesta la “nostra” cultura, dai divi del pop ai politici […]
ed a cui gli Stooges si oppongono in modo non categorico, come un
plotone di avanscoperta nella guerra imminente per ripulire gli
schermi cerebrali narcolettici e buggerati di tutta la terra,
liberandoci infine tutti quanti da stili di vita sostanzialmente
privi di creatività, nei quali spesso gente che non ha nemmeno
l'orma del talento o della personalità o del carisma che possiamo
avere io o voi viene fatta assurgere a ruolo di divinità. È tutta
una montatura pomposa.
Così adesso capite dove voglio andare
a parare, perché gli Stooges sono indispensabili […]. Ci vuole
coraggio per fare la figura dell'idiota, per dire: “Vedete, è
tutta una frode, tutto il concerto e tutto questo carrozzone
iperrealistico, pieno di riflettori e droga, e il fatto che voi siete
laggiù ed io sono quassu non vuol dire proprio niente”. Perché le
cose stanno davvero così. Gli Stooges hanno quel tipo di coraggio,
ma pochi altri artisti ce l'hanno. […] La palese verità è che il
99 per cento dei divi del pop non ha il vero carisma, stile o valore
per difendere i loro bastioni […] sul palco senza l'aiuto
artificiale di cui si sono sempre avvalsi. La maggior parte di loro,
se si beccassero una torta sul muso […], non farebbero altro che
crollare, attoniti e sconfitti, incapaci per natura di affrontare
faccia a faccia la loro base di sostenitori truffati che hanno
mangiato la foglia (per colpa della debilitante vita da bambini
viziati che hanno vissuto, anche quelli che magari in partenza
avevano le palle – fratelli, l'oppressore è grasso e debole!).
Semplicemente, […] il tipico divo del pop non è molto intelligente
e nemmeno molto consapevole di tante cose che succedono fuori dal suo
sostrato luccicante, e vive per metà nel suo mondo di fantasia, dove
l'ego e la vanità autocompiaciuta vengono sovralimentati e corrodono
la sostanza come una dieta costante a base di cocaina.
Per
quanto non si possa essere d'accordo, questo è il Nostro punto di
vista. In sostanza, noi andiamo ad un concerto per ascoltare la musica e vedere lo spettacolo,
non per osannare un personaggio. È questo che distingue un fenomeno da
baraccone da un'artista. Se suoni bene fai il tuo dovere, ma poi è
il contatto col pubblico a fare il resto. Il cantante degli Hives, ad
esempio, è un montato senza pudore, ma se da una parte dichiara in
continuazione che la loro è la miglior rock'n roll band di sempre,
dall'altra non perde un momento per far capire al suo pubblico quanto
sia importante per loro. Gioca a fare la rockstar, ma è il primo a
non crederci, sa benissimo che la loro musica può essere suonata da qualsiasi coglione. È noto per l'abitudine di invitare sul palco la gente
ed invitarla a sostituirsi ai musicisti della band e concede sempre
vigorose strette di mano al suo pubblico, tanto che nelle pause si fa
passare il cellulare dai fan per scattare lui stesso una foto dal
palco (cioè invertendo i ruoli canonici del rapporto
artista-pubblico) ai fan e poi restituirlo.
Dal nostro punto di
vista, quindi, non si salvano nemmeno fenomeni tanto idolatrati quali
John Lennon, Grace Slick, Jim Morrison, George Harrison, Gene
Simmons, Bob Dylan ed, in alcuni casi, neanche quel bonaccione di Bob
Marley. Tutti hanno i loro indiscussi meriti (nel caso di Gene Simmons sono da attribuire maggiormente all'attività nel backstage piuttosto che a quella sul palco), ma ciò non significa minimamente
che siano delle persone superiori alla media.
Una volta che ti
accorgi della tua grandezza, o decidi di diventare una guida, ed in
quel caso devi trovare un modo per scinderti dal tuo super alter ego,
e trovare un contatto che ti permetta di comunicare col tuo seguito
(vedi la lezione del grande Mahatma), oppure tutto finisce per
risultare una leziosa pratica di autocompiacimento e di culto del sé.
Perché, in fin dei conti, se quello
che fai è grande, questo non significa che tu sia una bella persona,
né interessante. A me non interessa sentire le dichiarazioni di
Fedez, per esempio, solo perché è un divo. Fedez è un mezzo
coglione (ho letto una sua intervista su Rolling Stones per poter
dire che lo è solo a metà), quindi deve stare zitto e tornare a
fare (sigh) “musica” (anche se sono sicuro che a zappare l'orto se la
caverebbe meglio), non ha nessun diritto di stare ad AnnoUno da
quella maestrina della Innocenzi, perché se lo ha lui questo diritto
allora lo meritiamo sia io che voi e sono sicuro che avremmo
argomentazioni molto più interessanti da proporre.
Parte 2: l'importanza della critica
Fare critica può sembrare, in un certo
senso, mettersi su un piedistallo. In realtà è diverso, si mette la
propria conoscenza al servizio di un giudizio. È un meccanismo noto
ed antico, fin nelle forme più arcaiche di organizzazione sociale:
il vecchio saggio siede al concilio.
In questo senso, si può dire che il
recensore, o critico, ha la “presunzione” di poter giudicare. Può
essere. Essendo a conoscenza di avere una competenza in un campo, il
suo ruolo non è quello di fare il giudice su mari e monti, ma
semplicemente di argomentare le sue opinioni in merito ad un
determinato giudizio e pertinente ad un campo limitato (in questo
caso, la musica). Questo, in sostanza, è il principio del cosiddetto
giornalismo d'opinione. Questo però è un modus operandi che sta
ormai scomparendo dalle riviste musicali, in cui ormai i mezzi pareri
e le frasi preimpostate vanno per la maggiore (in alcuni casi non ci
si cura neanche dell'ortografia, vedi Outsiders).
Il musicista
intelligente, però, vuole sapere che cosa c'è che non va nella sua
musica, perché sa che il suo percorso di crescita e continuo e che
c'è sempre qualcosa di nuovo da imparare. Quindi ecco che il ruolo
del giudice-giornalista trova un suo primo scopo.
In secondo luogo, lo scopo di questo
tipo di giornalismo è la formazione e, per citare sempre Bangs, la
“liberazione delle masse”. Il recensore si fa carico del dovere
morale di dividere la merda dall'oro e indirizzare l'ascoltatore
verso una scelta più razionale, e tanto più saranno validi le
argomentazioni che sarà in grado di fornirgli, tanto più sarà
efficiente il suo lavoro. Se non ci fossero stati i critici, cosa sarebbero stati i Velvet Undeground, i Nirvana, i Sex Pistols, i
Clash o i Beatles senza qualcuno che ne capisse e li tirasse fuori dalle bettole? Inoltre, tutto quello che oggi
viene definito “underground” non avrebbe mai potuto formare la
base da cui i nostri musicisti (professionisti e non) attingono e
rielaborano per fare la musica dell'oggi e del domani. E sono proprio
quei critici che vanno a rivalutare certi insuccessi commerciali
attribuendo loro l'indiscusso merito storico che hanno avuto (come ad
esempio, White Light White Heat, The Psychedelic Sound Of 13th Floor
Elevators, Pet Sounds, The Kinks are the Village Green Preservation Society). Il ruolo del recensore, inoltre, sempre sul piano
storico, è di riuscire a capire ed interpretare per tempo i
cambiamenti importanti nel mondo della musica, così come la
comprensione profonda del legame tra musica e cambiamenti sociali, e
come cioè la musica riflette dei fenomeni ben più di ampio raggio,
che riguardano la politica e l'economia. Cosa sarebbero stati il
fenomeno del punk, dei mods e della new wave, se non ci fossero stati
dei critici-giornalisti, capaci di descriverne la portata e trovare
gli stessi termini con cui ancora vengono definiti al giorno
d'oggi?
In conclusione, dunque, potremmo forse essere tacciati di
presunzione e di saccenza, che del resto rappresentano solo un
aspetto collaterale di un modo di esprimersi diretto e senza mezzi
termini, e di un'attenzione profonda per i fenomeni analizzati, ma si
tenga in considerazione che facciamo quello che facciamo perché ci
piace, e perché ci crediamo profondamente. Senza secondi fini.
Anche questo 2014 che volge alla fine, come tutti gli anni precedenti, del resto, ha visto affacciarsi sulle classifiche mondiali l'ennesima, inutile proposta discografica di qualche vecchio monolite del rock, incapace di accettare l'idea di un placido ritiro di fine carriera.
Fortunatamente, quest'anno Bob Dylan non c'entra. Se si esclude un fenomeno straordinario come quello di Mulatu Astatke o la straordinaria lucidità creativa di un campione come Peter Gabriel, risulta chiaro ed evidente come ormai al giorno d'oggi le rockstar nate prima degli anni 60 farebbero meglio a restare fuori dalle scene.
Ho deciso così di provvedere ad un'altra selezione della top 5, in senso decrescente, ovvero: dal peggio al meno peggio (se non al meglio), anche perché se dovessimo occuparci di recensire ognuna di queste proposte sarebbe, più che altro, una grande perdita di tempo.
#5 - Aretha Franklin - Rolling In The Deep
72 anni e non mostrarli? Ma no, è solo Photoshop. Aretha Franklin era già visibilmente sovrappeso ai tempi dei Blues Brothers (ed andava già per i 40), oggi a vederla sul palco è una vecchia cicciona e truccata ma, soprattutto, senza un filo di voce (qualsiasi persona con un minimo di nozioni sul canto è in grado di capire come la versione di Aretha sia molto più semplice di Adele, in quanto evita il cambio di registro sugli acuti e si perde in tecnicismi del tutto fuori luogo e mal riusciti). Le sue tette sembrano voler scivolare pericolosamente verso il terreno, come se fossero fatte di piombo, ma la cosa più inquietante è che, per cogliere l'attenzione del pubblico, con buon gesto da big mama, solleva costantemente le braccia flaccide che (bleargh!) farebbe meglio a tenere attaccate al corpo.
Cara Aretha, la tentazione di dare una lezione a quella giovincella amante della dieta ipercalorica che è Adele (che all'apice della sua carriera riuscirà a diventare poco più che una tua emula) è lecita, ma questa era una lezione che avrebbe potuto dare la Aretha di 30 anni fa. Non sei più quella di una volta, sei vecchia. Il tuo posto è a casa, a preparare torte per i tuoi nipotini, non al Sullivan Show!
#4 AC/DC - Play Ball
"Cosa rispondi a quelli che dicono che avete scritto 11 album tutti uguali?" "Non è vero. Ne abbiamo scritti 12. Fate bene i conti"
Angus Young
Annunciato a dicembre il nuovo album degli AC/DC.
E con questo il conto si allarga. Il nuovo singolo non ha nulla in più da dire. Angus Young era già ridicolo a torso nudo ed in pantaloncini una decina d'anni fa. Adesso che il fratello è morto, è entrato in band il nipote. Bisogna spremere il brand, prima che schiattino tutti. Senza pudore.
#3 U2 - Song Of Innocence
Il nuovo album degli U2 sa di tutto tranne che di U2, se non fosse per la voce di Bono. Il gruppo ci sa sempre fare ed in effetti, per essere un bell'assembramento di canzoni prese a casaccio, rispettivamente per copiare la moda di turno (Arcade Fire e Coldplay in primis), il prodotto riesce, è compatto ed ogni ritornello rappresenta potenzialmente un inno da stadio. Sono pronto a commettere che molti cadranno in questa trappola. Potete usare questo album come buon test per distinguere gli intenditori di musica da quelli che puntualmente scambiano il disco più commerciale ed insipido di una band per l'album dell'anno, esattamente come tre anni fa con Eden dei Subsonica (faceva schifo, ma quanti vostri amici ne hanno parlato bene?) o l'anno scorso con AM degli Arctic Monkeys (su cui ci eravamo già espressi qui). Per quanto riguarda gli U2 stessi, sono così spaventati dal confronto del pubblico che hanno reso l'album direttamente disponibile in forma gratuita su iTunes e Spottify, mentre il video di Every Breaking Wave imperversava direttamente in televisione. Mossa da abili maestri, ma a noi non la si fa.
#2 Pink Floyd - The Endless River
« The Endless River? Non lo ascolterò. Non ho più niente a che fare con loro. » Roger Waters
Ebbene sì, il nuovo album dei Pink Floyd non si merita un articolo tutto per sé. Nato dalle jam del '93 che portarono alla realizzazione di The Division Bell, non è nient'altro che una raccolta di outtake del periodo, la cui qualità sonora a volte risulta non sempre impeccabile (contrariamente a tutte le uscite dei Pink Floyd dal 1972). Del resto i Pink Floyd, già privi della loro mente più feconda dall'abbandono di Barret (Roger Waters), non avrebbero di certo potuto proseguire senza Richard Wright, decesso pochi anni or sono, così hanno deciso di riesumarlo (in senso puramente sonoro) tirando fuori dai cassetti i nastri in cui il contributo del tastierista alla band fosse ancora decisivo.
In fin dei conti, quest'album è molto meno paggio di quanto mi aspettassi. I principali difetti sono 2: il fatto che andava commercializzato non come un album, bensì come una raccolta di outtakes, e la copertina che, pur essendo dello studio Hypgnosis, fa abbastanza cacare.
Lasciando da parte il terribile singolo Louder Than Words e la finale Nervana, le canzoni danno prova di una band in uno stato di salute abbastanza buono, per quanto a volte pecchi di autoreferenzialità e sia facile il ritorno ai cliché di Shine On You Crazy Diamond (Things Left Unsaid), Welcome To The Machine (It's What We Do) e Us And Them (Anisina). Il punto di vincente di questa raccolta strumentale è l'onestà e la semplicità che erano mancate sia a The Division Bell che in A Momentary Lapse Of Reason, in assoluto l'album peggiore del gruppo.
Il mito del gruppo rimane salvo. L'errore più grande della band è stato semplicemente quella di riunirsi nel 1987.
#1 Robert Plant - Lullaby And ... The Ceaseless Roar
Robert Plant va ormai per i 66 anni e ne sono passati 45 dal suo esordio discografico con i Led Zeppelin. A differenza di tanti altri mostriciattoli rugosi che ai tempi d'oro giocavano come lui inserendo i pesci nelle fichette delle fan (non so se ricordate l'episodio, ma per pesce intendo proprio un pesce con tanto di squame e pinne), invece di rimanere ancorato ai vecchi fasti del passato e fotocopiarsi in una serie di prodotti discografici inutili (vedi Deep Purple, AC/DC, Jimmy Page e, bene o male, tutti i gruppi hard rock degli anni 70 che esistono ancor oggi), Plant ha sempre trovato, e specialmente negli ultimi 20 anni, modo di riscattarsi dall'immagine che lo contraddistingueva, avventurandosi in un interessante percorso di sperimentazione sonora e dimostrando di avere capacità e perseveranza. Nei soliti ultimi dieci anni possiamo ricordare l'ottimo duetto con Allison Krauss (Raising Sand)
i soprendenti tre concerti di reunion coi Led Zeppelin (che ha dato recentemente alle stampe il buon Celebration Day)
la rifondazione della sua band della gioventù, la Band Of Joy (con cui ha rilasciato il discreto Band Of Joy e, soprattutto, Live From The Artist Den)
per arrivare a Lullaby And ... The Ceaseless Roar, che potrebbe rappresentare il suo migliore album in assoluto, forte di una band tutt'altro che convenzionale, i Sensational Space Shifters, con dei fuoriclasse che provengono da Portishead, Cast e Tinariwen.
Il risultato è una american music che guarda al passato ma anche altrove, tra suggestioni africane ed interessanti sfumature elettroniche in uno straordinario equilibrio stilistico, che non indulge mai nell'autocelebrativo. Il disco finora ha ottenuto una media di 81/100 su 23 recensioni di riviste internazionali importanti.
Sembra proprio, infatti, che lo stesso Plant sia il primo ad aver capito la lezione, e che quindi continui a pubblicare solo perché conscio di avere ancora qualcosa di valido tra le mani. A proposito di quest'album ha dichiarato:
Forse quest'album segna una fine per me. Non è il solito caleidoscopico di ispirazioni diverse, da Son House a Roni Size alla musica del Gambia, è qualcosa di diverso ed ho l'impressione che chiuda in qualche modo un percorso.
Tanti di voi conosceranno la band per la bellezza cristallina di Le Vens Nou Portera, ma è bene che sappiate che i ND sono stati molto di più. Sono uno dei gruppi più sottovalutati della storia.
Questo album, Veuillez rendre l'ame (à qui elle appartient), che oggi compie 25 anni, rappresenta ormai una vera e propria pietra miliare della storia francese.
Un album semplice ed onesto, adolescenziale e maturo al tempo stesso, che rese i Noir Désir uno dei gruppi più importanti della storia della musica francese e che ancora oggi, forse per un'inconsapevole ostilità che teniamo nei confronti delle opere in lingua francese che non riguardino Rimbaut o Pennac, non ha ottenuto il posto che gli spetta nell'olimpo degli album new wave.
Bertrand Cantat, allora ben lungi dallo sgozzare la moglie, è un cantante fenomenale, le cui potenzialità sono pari a quelle che aveva Heat Ledger come attore.
Un ascolto è d'obbligo, anche se i Noir Désire si sono sciolti ormai da quattro anni.
La discografia dei Noir Desiré è interamente scaricabile a questo link.
2014, Woodworm
Label OVERTURE IL
MARE DAVANTI COME REAGIRE AL PRESENTE COPERTA TE LO
PROMETTO CALCI IN FACCIA CON CHI PENSI DI PARLARE ODIO
SUONARE IL VINCENTE GRAND FINAL
03 ottobre 2014. Esce
per Woodworm Label (distribuzione AudioGlobe / The Orchard) “Alaska”,
quarto disco sfornato da corde, pelli, fiati e cervelli dei Fast
Animals and Slow Kids
(da Perugia). Produzione di Andrea Marmorini e Jacopo Gigliotti
(Anubi Produzioni),
mixaggio di Andrea Rovacchi (uno dei fonici più importanti del
panorama indipendente italiano, che ha lavorato con diversi
artisti del calibro di Vinicio Capossela, Modena City Ramblers,
Cisco, Giardini di Mirò, Cut, Julie's Haircut o Marlene Kuntz) e
mastering di Andrea Suriani (fonico
e musicista/turnista di diversi artisti tra cui I Cani, Cosmo, Gazebo
Penguins, M+A, Drink To Me, Colapesce, Giardini Di Mirò, Bud Spencer
Blues Explosion). Un teatrino non da poco che sicuramente a livello
di qualità del suono non ha deluso e ha riconfermato le ottime
uscite, figlie di un roster di tutto rispetto, dell’etichetta
italiana Woodworm. Per i FASK è il lavoro della maturazione e della
crescita complessiva, in cui le molteplici influenze musicali, che
già avevano dato vita al precedente Hybris,
mutano e si sedimentano sul semi-nuovo muro del suono di Guercini e
compagnia (Titus Andronicus e Fucked Up le più forti).
Il
disco è un veloce susseguirsi di dieci tracce arrabbiate, furenti e
coinvolgenti. Melodie e riffoni fanno da superbo contraltare
alle corde vocali del cantato, a sua volta ancora più trascinante,
di Aimone Romizi. L'inizio è affidato a Overture,
che come Un Pasto al
Giorno in Hybris,
è l’introduzione che (questa volta con accenni psichedelici) apre
alla strada al ritmo inesorabile a 180 bpm de Il
Mare Davanti: la
prima piccola perla di questa collana di tristezza e malessere che è Alaska.
L’ascolto procede veloce ed angosciante con Come
Reagire al Presente,
inno alla guerra dei rapporti che si dirige, tra tumultuose paure e
consigli di vita, verso un futuro troppo incerto. “Coperta”
resta una delle migliori del disco, seguono Te
lo Prometto e Calci
In Faccia, ma la vera
bomba nascosta a metà dell'opera è Con
Chi Pensi di Parlare.
Si passa poi per l’autoaffermativaOdio
Suonare in cui il
momento del live viene raccontato come una guerra dove sconfiggere la
propria insicurezza, così da raggiungere una sorta di purificazione
volta al miglioramento, andando infine a chiudere con la desolante
“Il Vincente”
(peripezie al piano) e Grand
Final, una fila di
quattro radicali cambi di tempo per cantare la vittoria dei legami di
affetto su questo disastro di tristezza che è il disco (siamo
il male da estirpare / siamo santi senza chiese / ma di fronte alla
morte noi siamo di più / condoglianze universo).
Più
o meno 35 minuti di musica in cui i Fast
Animals and Slow Kidsdicono
la loro, mostrando una minuziosa attenzione per i più minimi
dettagli e non risultando esagerati nemmeno nei 7:59 di Grand
Final. Le strutture dei
pezzi sono generalmente molto semplici, forse in alcuni casi persino
ridondanti (Calci In Faccia), ma prendono l’orecchio ed, alla fine dei conti,
riescono a rapire. Il cantato graffiante di Romizi è ben calibrato e
riesce a rendere incisivi i testi maturi delle canzoni, anche se le
figure retoriche, sebbene non si perdano nel vuoto più assoluto,
spesso danno l'idea di cercare disperatamente di arrivare a un senso,
forse senza mai raggiungerlo. Nel complesso, si può lamentare
un’evoluzione musicale non troppo eccessiva della band perugina,
che di certo non espande il suo potenziale sonoro, ma lo consolida
rispetto alle soluzioni già veicolate nei precedenti Cavalli
e Hybris.
C'è una pericolosa tendenza a virate pop che ricorda più un certo
college punk di fin troppo facile ascolto (Calci In Faccia)
piuttosto che i gloriosi tempi passati. Fast Animals And Slow Kitty.
Si può anche parlare di un
contenuto testuale poco vario, che cerca sì di entrare nel profondo,
ma solo fino a un certo punto, quasi come se fosse bloccato con
insistenza da questa “paura” e “insicurezza” già padrona del
contenuto delle liriche (quanto
vorrei fuggire / dal giudizio degli altri / e dalla mia insicurezza /
che mi lega ai palchi / da quasi tredici anni).
Nonostante tutti giri di parole, Romizi in fin dei conti non ci porta
poi così lontano, quasi volesse dirci di non provarci troppo.
L’unica certezza, a detta sua, sono gli amici e le quattro mura a
noi famigliari. Anche la stessa epicità che contraddistingue la
figura del musicista può andare in frantumi, davanti alla casualità
che governa la nostra esistenza (ora
sei pronto per dire a tuo padre che aveva ragione […] / ora sei
pronto perché sei diverso hai voluto troppo / ora sei pronto per
piegarti ancora un’ultima volta). Eppure
nessuno ha chiesto lezioni di vita, tutt’altro, ognuno è libero di
giungere alle proprie conclusioni. Alaska
esce dalle menti di chi, come noi, sta vivendo in questa generazione
priva di punti fissi e di coerenza. Lecita è la voglia di unirsi
tutti insieme in questa confusione, lecita la voglia di non perdersi
nella tempesta. I Fast
Animals and Slow Kids,
senza scomodare nessuno con paragoni poco efficaci, hanno dato alle
stampe un terzo disco (se si esclude il demo Questo è Un
Cioccolatino) che musicalmente non rimarrà di certo impresso
nelle nostre menti, ma che li conferma pur sempre come una delle più
vive e sorprendenti realtà del nostro panorama musicale.
Consigliato, ma si poteva fare un po' di più.
Un primo traguardo. 25 post, un migliaio di visualizzazioni, ma è solo l'inizio.
In attesa che la pagina su facebook cominci ad avere una certa rilevanza (ma voi continuate pure a leggere Outsider, dove ignorano le più basiche nozioni sull'ortografia, eh?) e non un pugno di fan neanche sufficiente a riempire un aula, vi forniamo un comodo riassunto di quanto si è parlato finora.
Quello che segue è l'elenco delle incisioni a cui è stato fatto riferimento nei precedenti articoli. Cliccandoci sopra, potrete visualizzare l'articolo in cui se ne parla.