domenica 21 dicembre 2014

Lezioni di Lindy Hop con Betty Boop



Una cosa che mi piace moltissimo della vita è che, per quanto monotona possa facilmente diventare, per quanto le persone che hai intorno finiscano, e non mi riferisco ad una situazione particolare ma a qualcosa che probabilmente ha a che fare col senso stesso dell'esistenza, per deluderti, prima o poi accade sempre un fatto che ti dà una piccola scossa.
C'è sempre speranza. Una piccola crepa ti rivela un dettaglio che non avevi notato in una parete che fissavi da anni. Una persona a cui sei molto affezionato ti dice addio per sempre, ed ecco che ne spunta un'altra che credevi ormai solo un fantasma del tuo passato. Sono le piccole cose che fanno sentire vivo ed aiutano non nei momenti che si potrebbero considerare difficili (di per sé necessari in quanto  permettono di apprezzare la bellezza di altre situazioni), ma in quelli che sono proprio i peggiori, quelli che concediamo troppo facilmente al tedio ed alla noia per via di un generale disprezzo della monotonia della vita e per l'eccessiva idiosincrasia che finiamo per mostrare nei confronti del prossimo.
Lo scorso fine settimana mi sono recato a Torino per assistere dietro alle quinte alla realizzazione del concerto dal balconcino in Via Mercanti (articolo per il quale sto ancora raccogliendo le idee) ma la scoperta più interessante che ho fatto è venuta fuori discutendo di Chinese Man davanti ad un piatto di coniglio alla senape ed ad un cannone. 
Me ne stavo seduto al tavolo con la mia amica Serena ed il suo ragazzo, un tipo col quale è rimasta incastrata di recente in una relazione morbosa e soffocante. Premetto che questo tizio sarebbe anche sveglio e simpatico, se non si fumasse tre quarti delle sue entrate economiche. Voglio dire, che se li fumi pure quei tre quarti, ciò che mi dà sui nervi è quel suo modo di andarsene in giro tutto fumato mentre pretende di comportarsi come se fosse perfettamente sobrio. Questo tipo, insomma, è un vero spaccone. Ha sempre la sparata facile e gli piace dare delle boccate molto forti alle sigarette mentre le tiene ferme con due dita, coprendosi praticamente mezzo volto mentre lo fa, socchiudendo gli occhi come un vero macho.
Mi stavo giusto sorbendo un suo eloquio a proposito del vantaggio di avere una sigaretta molto lunga rispetto al drummino rollato, con tanto di digressione verso l'importanza della gestualità e della maniera in cui si può guardare una donna mentre si aspirano boccate intense. Serena stava lì, appollaiata sulle sue gambe, stretta dal suo braccio invadente intorno al collo, a sorbirsi quello stupido monologo e a fissarmi con i suoi occhietti rossi ed umidi quasi come se volesse chiedermi aiuto, quando d'improvviso ebbe il guizzo d'alzarsi e mettere qualcosa di Chinese Man, così da trovare una scusa per allontanarsi. Del resto, anch'io a quel punto sentivo una gran necessità di levarmi dai piedi. Non riuscivo a starmene lì incollato alla sedia a sorbirmi quei discorsi a metà tra il litigio e la supplica, con tutti quei pucci e quegli amo e quegli sguardi che dicono esattamente il contrario, e tutto quel THC che mi stava scorrendo in corpo in corpo mi stava rendendo un tantino troppo irrequieto. Così mi alzai in piedi, improvvisai un passetto in maniera molto, molto goffa e scorsi sullo schermo l'immagine di Betty Boop.

 
Betty Boop.
Mi era sempre stata sul culo quella puttanella.
Eppure Betty Boop era nel video di Chinese Man, che sono dei tipi a posto. Stupida moda degli anni 30. Ma non erano i venti, poi, che stavano tornando di moda? Secondo me la gente fa una gran confusione. In fin dei conti, credo si faccia un sacco di confusione in generale, quando si tratta di musica anteguerra: l'interesse si limita all'imparare i passi giusti, farsi crescere i baffi giusti, e portarsi a letto le pulzelle giuste, perché di questi tempi nessuno approccia le mode senza un secondo fine, e quelli che non lo fanno si ritrovano come me dietro ad un computer a scrivere blog che non saranno letti da nessuno. L'importante è che non comincino a confondermi Bird con Reinhardt, perché a quel punto comincerò ad incazzarmi sul serio (no, non li metto i collegamenti ai nomi, lo dovete sapere da soli di chi si tratta).


"Cosa cazzo c'entra Betty Boop con Chinese Man?" Ho detto. "Perché un artista così valido accosta la sua musica a quella sciaquetta da due soldi?" In realtà ignoravo quasi completamente chi fosse Betty Boop. Ha sempre rappresentato un'immagine fastidiosa della mia infanzia, un po' come quei videogiochi dove le cose potevano andare veramente a finire male e non c'era il checkpoint, la seconda vita o robe del genere. Betty Boop, con quell'aria efebica che aveva in Chi Ha Incastrato Roger Rabbit, con quella voce stridula che da bambino mi riusciva insopportabile e che invece ora associo a certi mugolii che mi rimandano direttamente (fortunatamente) ad alcuni dei momenti più belli della mia vita. 

 
È stato proprio allora che quello spaccone tutto fuso, senza stare ad argomentare, mi ha detto: "Si vede che allora non conosci proprio per niente la vecchia Betty. Tu hai mai visto The Old Man Of The Mountain?". E così ci siamo guardati questo video:


Non credevo ai miei occhi.
Betty Boop duetta con Cab Calloway! Sì, proprio lui, il tipo di Minnie The Moocher. È stata una delle scoperte più belle degli ultimi due anni. Un'icona negativa della mia infanzia, di colpo, si è trasformata in uno dei miei idoli.
The Old Man Of The Mountain non è un caso isolato. L'intera serie di cartoni di Betty Boop, oltre che a dare un'immagine facile da trovare su cui i militari americani potessero masturbarsi quando erano lontani dalle loro mogli, era costruita sulle musiche di quegli anni, con particolare riguardo verso le movenze degli hoppers, i ballerini di swing, ed un'attenzione del tutto particolare verso le note eseguite dalle big band e le prodezze vocali dei cantanti. Nulla è lasciato al caso! Ogni singolo frame è costruito mediante una rigorosa attenzione ad ogni singolo dettaglio dell'esecuzione musicale. 
I cartoni di Betty Boop (doppiata dalla cantante Mae Questel) rappresentano una delle vette artistiche più alte raggiunte negli anni 30. Irriverenti ed a tratti quasi provocatori, i disegni sono studiati solo come contorno per la musica, che è l'unica, reale protagonista.
Ed il ballo ha un ruolo fondamentale. Qui ci sono lezioni di danza per gli anni a venire. Guardate Koko the Clown in questa versione di Biancaneve (sempre con il vecchio Cab).


(questa è la versione intera del cartone)

Ed è anche doveroso citare la versione animata della stessa Minnie The Moocher, uno dei primi cartoni in assoluto della sex symbol animata. La canzone riuscì a vendere circa un milione di copie in un periodo in cui a poterla ascoltare erano probabilmente in cinquecentomila. 


E ritornando a Chinese Man, la canzone campionata era Humming To Myself, un pezzo classico del 1932 interpretato per primo dalla cantante Conne Boswell.

 
Anche se la versione campionata era questa.


... e non manca l'interpretazione della stessa Betty:

... la quale, del resto, si limita a prestare solo il proprio corpo, e non la voce, nel video di Chinese Man. Arrivato a questo punto vi ho già fatto una testa tanta su questo nome, quindi tanto vale che inserisca anche la canzone di CM che preferisco:


Ma, del resto, questo non ha troppa importanza. Ciò che invece conta è che, quando sono triste, o mi annoio, posso sempre sperare in un cartone di Betty Boop per tirarmi su il morale.
Perché, alla fine dei conti, se perle di questo genere possono rimanere nascoste ai nostri occhi per tutti questi anni, allora chissà quanto dev'essere ancora interessante da scoprire il mondo, la vita, tutto quanto.

domenica 7 dicembre 2014

Chemical Wakes – When Do You Want To Be Okay?



Treason
The Waiting
Scattered Son
Ansia




Sono arrivati gli sbarbi. Dico così non perché ce l'ho con i Chemical Wakes, ma è che sono proprio giovani. È la prima volta che mi capita di recensire degli sbarbi. Ma io li rispetto anche nella sbarbitudine, quindi non cercherò di essere delicato e gentile, ma mi rivolgerò a loro come se fossimo in un rapporto inter pares.


Cominciamo dal nome. Ecco, se pensate che questo abbia qualcosa a che fare con la Chimica, lasciate perdere. Probabilmente i Chemical Wakes non sanno né che cos'è la chiralità e la loro conoscenza della chimica si ferma a Walther White ed alle famose scie degli aerei.  Anzi, sono quasi sicuro che escono più probabilmente fuori da una facoltà come Scienze della formazione (del resto, lo stereotipo vuole che, gli studenti delle facoltà scientifiche, quando smettono di masturbarsi compulsivamente, si dedichino alla musica brutale come quella a cui abbiamo reso merito – ma perché poi? - nel precedente post). Quindi fermiamoci un attimo sul nome. Chemical Wakes. Che cosa vuol dire?
Scie chimiche. Cominciamo male. Anzi, malissimo. Innanzitutto, la denominazione corretta è chemtrails, tutto attaccato, però del resto bisognerebbe andare a controllare su wikipedia.
Allora diamo delle lezioni di chimica alle scie chimiche. 


La materia, così come noi la conosciamo, si trova allo stato bulk, che in termini semplici potrei descrivervi come macro. Ad esempio, la vostra mano, un tavolo. Quando scendiamo nel piccolo (e per piccolo, mi riferisco piccolo piccolo, tipo un miliardesimo di metro), siamo nel nanoscopico. Le particelle di grandezza nanoscopiche sono dette nanoparticelle e sono molto studiate in ambito chimico e fisico in quanto, a differenza dei corrispettivi materiali bulk, presentano delle proprietà fisiche (tipo, la capacità termica) che non sono costanti ma dipendono dalla dimensione. In termini semplici: se prendo un pezzo di ghiaccio si scioglie a zero gradi, che sia grande due centimentri o dieci chilometri. Il nanocristallo di ghiaccio no. Se è grande dieci o cento nanometri ci sarà una differenza enorme nella temperatura di fusione. Questo perché, avendo uno spessore infinitesimale rispetto all'area superficiale, l'energia superficiale del cristallo nanoscopico è notevolmente superiore a quello del ghiaccio che tirate fuori dal frigo. Ergo, quando un aereo viaggia a 5000-8000 metri d'altezza fa piuttosto freddo fuori. Il motore rilascia nell'area una serie di nanoparticelle di acqua (sospensione colloidale) che congelano all'istante, ma richiedono molta energia per essere evaporate. Ecco il motivo per cui la scia dei motori dietro all'aereo rimangono per un certo periodo di tempo. Si tratta di...GHIACCIO, e non di sostanze chimiche che s'insinuano nel nostro cervello e ci fanno votare Berlusconi. E vi assicuro che gli alieni non c'entrano nulla: il resto son cose da grillini ignoranti.

Bene, lezione finita, adesso torniamo alla musica.
Primo consiglio,quindi: cambiate nome (lo so, l'avete già fatto una volta: è noioso) prima che qualcuno vi metta in ridicolo. Oltretutto, c'è bisogno di un format che vi colleghi meglio alla musica. Nome copertina titolo. La copertina va bene, il logo del gruppo pure, è il resto che stona. Pensateci.
Ma parliamo di M U S I C A.
Questa è musica da sbarbi. Anzi, da sbarbe. I Chemical Wakes sono quattro ragazzini di Torino, che avevano già dato alla luce il progetto The Morgellons.  Le due parole chiave sono le stesse tre che ci hanno martellato i coglioni negli ultimi 8 anni (e, in realtà, negli ultimi trenta): indie new wave. Nulla di più, nulla di meno.
Intendo dire, l'ep dei Chemical Wakes è ben fatto. I suoni sono perfetti, gli arrangiamenti pure. Le chitarre sono pulite, non ci sono errori tecnici, la batteria è triggerata quando dev'esserlo, i coretti sono a posto, il synth ha quel suono che tutti cercano. Il problema di questa perfezione apparente è che non arriva da nessuna parte: e questo probabilmente perché non sono una adolescente sedicenne che sta scoprendo la propria sessualità.
Cari Chemical Wakes, il vostro Ep tutto sommato è carino, posso ascoltarlo con tranquillità mentre mi cimento nello studio, ma mi scivola addosso esattamente come gli ultimi film di Woody Allen. Sì. Ecco un ottimo paragone. E non sto parlando di To Rome With Love, quello fa proprio cagare.
La recensione potrebbe finire qui, ma del resto siete giovani e credo di potervi ancora spiegare meglio che cosa intendo. Oltretutto, ho dedicato un bel po' di tempo per arrivare fino a qui e tanto vale che continui. 
Andiamo a vedere le cose un poco più nel dettaglio. Allora partiamo dal singolone: Treason


Il pezzo è fatto bene, anche se l'introduzione con gli armonici mi ricorda qualcosa di terribilmente già sentito (non mi viene in mente niente, però, sono un pessimo critico musicale). Le schitarrate che preludono al ritornello col coro, poi di nuovo strofa, il break finale, il riff che ritorna, tutto prevedibile. Il testo funziona (anche se non vuol dire niente), ma suona tutto terribilmente come se aveste deciso di fare la canzone di qualcun altro. Quello che intendo dire è che la canzone non vi appartiene. Potrei tranquillamente confondervi con un migliaio di altri gruppi che facevano la stessa musica a Sheffield circa dieci anni fa, ed almeno con altre cinque band solo a Torino, ma questo non toglie che potreste vedermi ballare mentre la suonate.
Ripeto: non vi appartiene. Vi appartiene la volontà di riprodurre uno stereotipo (in questo caso, il singolo indie new wave trascinante, facciamo alcuni nomi? White Lies, Editors, Franz Ferdinand – siamo contenti adesso?) si riflette proprio nel fatto che volete cantare in inglese quando neanche padroneggiate bene la lingua. Welcome regge il complemento oggetto solo se in seguito viene specificata la situazione, ad esempio:

oppure dalla canzone di Joan Baez, Welcome Me, che però in realtà dice welcome me to the city of angels
In caso contrario, si dice Welcome To sb.
Sono sottigliezze, è vero, ma il fatto è che se non le curate o 1) risultate ridicoli, a meno che non continuiate ad esibirvi in Italia (ed in questo caso, forse è meglio se smettete di commentare le foto delle sale prove in Inglese, perché tanto i vostri followers è già tanto se arrivano a Milano) o 2) evidentemente non ritenete che il significato del testo sia importante. Ma io non vi condanno per questo: vi sto semplicemente dicendo quello che le altre riviste lecchine non hanno le palle di dirvi o semplicemente non sono capaci di capire: e lo faccio perché mi dedico con tutto il cuore a fare le recensioni. Avete un futuro davanti ed un migliaio di fan: chiaritevi le idee e tirate dritto.
Sulla seconda canzone, The Waiting, mi limito a dire questo:


e passo oltre. Scattered Son, con il suo testo esistenziale del problematico rapporto di coppia, è ancora più prevedibile dei secondi pezzi. Ha un andamento irresistibilmente ketchy col suo giro quasi alla A-/F/C/G e il rullante che spara colpi di cannone. Il tutto sarebbe abbastanza sopportabile se non ci fosse quel oh-oh nasale che sa di retorico e basta. Devo dire che mi sono leggermente sopreso per la variazione di melodia a 3:30 circa. Sono idee a cui bisognerebbe dare più spazio: ma del resto, anche qui, l'idea è quella di ricalcare il modus operandi delle band che vanno di moda negli ultimi anni, che vuole che ogni tanto si faccia un po' di variazioni semitonali per infinocchiare l'ascoltatore che non se l'aspetta e fargli credere di essere dei grandi geni. Vi sfido a fare un pezzo di tre minuti su una melodia del genere, eppure potreste tranquillamente provarci.
Ansia è un pezzo ben fatto, ma rispetto agli altri manca di quelle aperture melodiche. In questo senso toglie il respiro, perché si può definire solo in un modo: pallosa.
Tornando quindi ai Chemical Wakes, vi faccio comunque i miei complimenti perché alla vostra tenera età siete già riusciti a sfornare un dischetto coeso, con un livello medio compositivo tutto sommato discreto e che dimostra una notevole padronanza degli strumenti e, soprattutto, del linguaggio compositivo proprio di un genere (la indie new wave). Questo però non è il punto d'arrivo, ma quello d'inizio. Adesso si fa sul serio.

VOTO: 55


facebook.com/chemicalwakes

Fabrizio Garberoglio- Voce, synth
Luca Tomaino - Chitarra, cori

Matteo Spada Sabato - Basso

Giulio Bardi - Batteria


mercoledì 3 dicembre 2014

Black Metal

Il Nero.
Un giorno delle persone si svegliarono nei loro lunghi capelli e decisero che il metallo doveva essere verniciato, di nero. È proprio così che i Venom fecero uscire il loro album più celebre: Black Metal.


Dall'82 ad oggi sono cambiate molte cose, musica compresa, ma non l'amore per il black.
Ora non ci occuperemo di cose eccessivamente datate, piuttosto di materia fagocitata negli ultimi anni, senza alcun intento storiografico.
Questo caricatore pieno di tracce sparerà proiettili abbastanza diversi tra loro, in automatico, con rate (/reɪt/) di fuoco variabile, munizioni blindatissime.
Dissero: "black metal ist krieg” e questo è fatto per annerire anche voi.

Per quanto mi riguarda è un inno tutto l'album (Howl Mockery at the Cross). Quel ragazzo tranquillo (troppo forse) sa il fatto suo.

#1 Leviathan - Summoning Lupine


Sono immortali, davvero. Il secondo video più bello dopo The call of the wintermoon.

#2 Immortal – Blashyrkh


Un'autostrada di suoni larga un muro ti sta investendo in pieno, non puoi farci un cazzo.

#3 Nortt - Af Døde


Ok, i Celtic Frost non sono troppo black in genere, ma è l'eccezione che conferma la regola.
Da ascoltare Tassativamente da soli al buio.

#4 Celtic Frost – Totengott


Ogni giorno che passa sogno di vivere in epoca sovietica.

#5 N.K.V.D-Incipit SSSR


Chiaramente una band da sagra di paese, ma con 4 distorsori in serie.

#6 Gorgoroth - Sign of an Open Eye


Lambiamo le coste frastagliate del Symphonic, del resto è symphonic black, per essere completi. E visto che non è black puro lo facciamo cantare a loro.

#7 Dimmu Borgir – Puritania


Non avrei voluto inserirlo, ma poi mi sono sentito in colpa, in fondo scrivere musica in prigione è bello tanto quanto è bello Filosofem. Sarebbe piaciuto anche ad Euronymous .

#8 Burzum – Dunkelheit


Viviamo sapendo che nessuno verrà al nostro funerale.

#9 Dark Funeral - My Funeral


Completezza.

Qui potete ascoltare l'album di cui parlammo in incipit.
Venom - Black Metal (Full Album): 


Altre scuole di pensiero vedono l'inzio del black metal qui:
Dick “Slaughtered Goat” Dale – Misirlou: 


Si, è quella di Pulp Fiction, ma quello non è un film black metal, è solo una storia, come tutti i film di Tarantino. Ora potete crocifiggermi e impalarmi come una capra ad un concerto dei Marduk in Polonia.

Arrivato qui provo un senso di incompletezza interiore, onde cui vado a farmi una passeggiata nella foresta.

mercoledì 26 novembre 2014

Gli Alt J ce l'hanno moscio


Che rubrica scurrile. Mi chiedo come faccia ad avere 28...ah beh lasciamo perdere. Sono solo 28.
Non so chi sia che mi abbia passato questo titolo. A volte la gente non sa proprio più che inventarsi. Non era meglio mettere una bella fica nuda in copertina, tipo questa?


Ecco, bene. Adesso ho la vostra attenzione. Grazie, torniamo all'argomento del discorso.
Gli Alt J. Il gruppo più unico, più alla moda ed alternativo del mondo. Su di loro ci eravamo già espressi nel nostro precedente articolo in dodici volumi (che però potete trovare in comodato cibernetico proprio qui). Insomma, gli Alt J sono il gruppo che è riuscito a cavalcare quella “magnifica onda” (“awesome wave”) di modaioli spocchiosi che sono gli hipster ed a imporsi come i colossi musicali di questa nuova decade. Il secondo album è la grande prova per capire se tutto quanto si è detto sui fossero solo chiacchiere o se, in fondo, sotto quei baffi levigati con sterco di struzzo, recintati sotto quei pantaloni almeno due taglie inferiori alla misura delle gambe, si nasconda veramente del talento.
This Is All Yours, insomma, è l'album della consacrazione o della condanna.

  1. Intro
  2. Arrival In Nara
  3. Nara
  4. Every Other Freckle
  5. Left Hand Free
  6. Garden Of England - Interlude
  7. Choice Kingdom
  8. Hunger Of The Pine
  9. Warm Foothills
  10. The Gospel Of John Hurt
  11. Pusher
  12. Bloodflood pt. II
  13. Leaving Nara (Bonus Track)
A mio parere, li lascia così, a metà.
Vi dico, aspettavo quest'album con ansia. Non tanto perché volevo rovinare gli Alt J. Mi piacciono. Quando ero adolescente e pieno di brufoli, mi capitava ogni tanto, tra una sega e l'altra, di mettermi a studiare chitarra. In quei piccoli e febbricitanti momenti creativi, mi ritrovavo a sfornare un sacco di giri come i loro. Se avessi avuto un po' più di talento nel falsetto e non mi fossi spaventare dall'elettronica (stupido idealismo), a quest'ora Something Good potrebbe avere il mio nome scritto sopra. Proprio per questo mi piacciono gli Alt J. Sono capaci di prendere dei giri banalissimi e dargli un taglio che hanno solo loro.
Ma il merito non è del cantante Joe Newman, che peraltro usa solo le dita perché in vita sua ha suonato solo la classica (cosa assolutamente anomala per un musicista indie di successo), ma neanche di Occhiali-e-Nasone Gus Unger-Hamilton, che mi ricorda tanto un mio amico che mi propinava dall'anfetamina alla salvia divinorum e poi all'esame prendeva 27 mentre tutti noi ci credevamo dei geni col nostro misero 21. Il merito è di quel gran figlio di puttana di Thom Green, che suona la batteria in una maniera del tutto sua, e del biondino idrofobo che ha mollato la band. Lui scriveva le parti di chitarra e di basso, di che cosa sarebbero sopravvissuti gli Alt J?
Da questo punto di vista, io trovo che non solo This Is All Yours abbiano dimostrato che gli Alt J sono sopravvissuti, ma anche che hanno avuto le palle di proporre qualcosa decisamente più maturo e meno orecchiabile. Pene, invece, un po' di meno. 
This Is All Yours è un album decisamente più coraggioso rispetto al precedente, innanzitutto sulla base del fatto che veri singoli non ci sono ed i pezzi girano generalmente nell'introspezione, se non si affidano alla sola voce e chitarra (Pusher). È un album riflessivo, che concede meno spazio alle strizzate d'occhio. Quello che manca è un vero singolo che trascini. La promozione ha voluto fare affidamento ai due pezzi dove gli ammiccamenti sessuali alle fan sono più evidenti - la sciapissima e dimenticabilerrima Left Hand Free, dagli inquietanti echi sixties - e Every Other Freckle, ma mentre la prima delle due non c'entra un cazzo col resto dell'album e avrebbe meritato un singolo (o un ep, che fa molto vintage e piace a certi fan), il secondo pezzo ha un incedere troppo prevedibile, un ritornello non troppo orecchiabile ed un momento strumentale assolutamente inutile.


Un singolo mancato è invece The Gospel of John Hurt, che se inizialmente fa gridare al miracolo ricordando certi Radiohead di OK Computer (ma, ahimé, si tratta solo di una voce computerizzata), in seguito si trasforma in un vero e proprio inno da stadio.
Un fallimento, quindi. Gli Alt J, il gruppo che ha costruito la propria immagine sullo stupore, al secondo album dimostrano di essere legati ai loro stessi cliché più di ogni altra cosa al mondo, e per di più per rilasciare un album moscio, incapace di graffiare e di comunicare, se consideriamo che i testi, rispetto all'album precedente, non hanno fatto il minimo progresso.
Resta, però, un piccolo barlume di speranza, racchiuso proprio nei primi 4 minuti dell'album.
La intro, che quegli stupidotti di Leeds non hanno mai utilizzato per aprire i loro concerti, è un capolavoro. Ci sono più idee in quei primi minuti che nel resto dell'album. Perché?


lunedì 24 novembre 2014

La redazione risponde


L'importanza dello sdegno

Non condivido ciò che dici, ma sarei disposto a dare la vita affinchè tu possa dirlo.

Voltaire

Siamo arrivati alla soglia del trentesimo post e finalmente abbiamo avuto i primi riscontri ed i primi contatti da parte dei nostri lettori. Abbiamo deciso quindi di concedere un po' di spazio per delle spiegazioni.
In primo luogo, vogliamo rispondere all'osservazione fattaci da una ragazza che per correttezza chiameremo T.C (Tizia Caia), la quale, indignata per il ritratto impietoso che facevamo della città di Torino, ci invita con falsa cortesia (del resto, come suole dire il proverbio “piemontese...”) a viaggiare di più per allargare i nostri orizzonti culturali e definisce il nostro articolo sugli Eugenio in Via di Gioia come “leccalulo”, infine ci chiede quale sia lo scopo a cui vuole pervenire l'autore dell'articolo.
In risposta a T.C., ed a tutti coloro che hanno sentito un moto di risentimento alla lettura del nostro articolo (che può vantare di essere stato letto quasi seicento volte) sugli Eugenio in Via Di Gioia, noi rispondiamo che va benissimo così, che offendersi è una reazione sanissima e che, anzi, è lecito parlare male di quello che non ci piace. Ed a questo punto la faccenda diventa un po' più complicata, se non paradossale.
Per rimanere informati delle fanfaronerie che scriviamo nei nostri post, infatti, il metodo migliore è proprio schiacciare Mi Piace sulla nostra pagina. In questo modo i nostri disturbanti post compariranno sul vostro feed e sarà più facile lanciare una campagna moralizzante. La procedura è semplice, esiste un pulsante apposito in alto a destra:


Il passo seguente (non per forza necessariamente a seguito del primo, ma caldamente più consigliato), consiste nel cercare l'articolo offensivo e schiacciare il pulsante Condividi


Si può anche aggiungere un bel commento negativo, e ve ne suggeriamo alcuni solitamente tra i più gettonati:

“gente che dovrebbe morire” - rancoroso ed efficace, ma con possibili strascici sul piano legale
“come si permette certa gente di insultare così la mia città?” - patriottico
“ma chi cazzo si credono di essere” - il più tipico
“questi soffrono di sindrome da pisello piccolo” - stile parlamentare berlusconiana
“ma che cazzo” - semplice, ma meno efficace
Come, del resto risulta implicito, il vostro sdegno (data anche la propensione della maggior parte della gente ad indulgere nella deprecazione) rappresenta per noi ottima pubblicità.
Le vostre opinioni ci interessano, che siano esse contrarie o favorevoli, secondo il principio per cui un certo Dandy sovrappeso diceva:
Non importa che se ne parli bene o male, l'importante è che se ne parli
e ricordiamo che il blog è concepito come piattaforma interattiva e di dibattito, per cui è possibile commentare direttamente in fondo alla pagina: basta accedere con Google.


Ora, alla luce di quanto detto, possiamo quindi passare a parlare del termine “leccalulo” e della presunta “intenzione secondaria dell'autore”.
In primo luogo, come si può desumere da quanto appena terminato di dire, il termine leccalulo è inappropriato ed inadatto. La nostra è stata una recensione favorevole, ma il nostro obiettivo principale è quello di parlare apertamente, liberamente e, se possibile, di ottenere una certa visibilità. Il leccaculo ha sempre come secondo fine quello di ottenere dei favori o delle attenzioni particolari. Scrivere un articolo negativo sugli EIVDG ci avrebbe sicuramente dato molta più visibilità perché avrebbe scagliato su di noi l'ira dei fan, catalizzando così su di noi le attenzioni di cui avevamo bisogno. Per quanto riguarda la sottile frecciatina ai presunti “secondi fini”, quindi, rispondiamo che (ed abbiamo tanti articoli dalla nostra parte, basta che li leggiate) il nostro interesse resta solo quello di scrivere in maniera libera ed appassionata, con un'attenzione principalmente rivolta verso la musica e gli atteggiamenti che costituiscono l'immagine del musicista, fuori e sopra il palco, per cui, se vogliamo osannare gli Eugenioblablabla o i Fanali Di Scorta, lo facciamo semplicemente perché pensiamo che se lo meritino.
Ma già che siamo arrivati qui, allora, ci sembra giusto rispondere ad altre due domande/osservazioni molto più pertinenti, che sono:
1)“come mai siete tanto fissati con la figura del personaggio costruito?”
2) “chi vi dà il diritto di esprimervi mettendovi su un piedistallo?”

Parte 1: la responsabilità morale dell'artista


Per rispondere alla nostra fissa sugli “atteggiamenti del musicista, fuori e sopra il palco, rispondiamo citando un articolo del nostro Grande Maestro, Musa ed Ispiratore, Lester Bangs.

Quello che segue è un estratto di un articolo chiamato “Pop, torte e divertimento: programma per la liberazione delle masse sotto forma di prescrizione degli Stooges ovvero “Chi è l'Idiota?” pubblicato dalla rivista americana Creem nelle uscite di novembre e dicembre 1970. L'articolo è anche presente nella raccolta “Guida Ragionevole Al Frastuono Più Atroce” pubblicato in Italia da Minimum Fax nel 2005.

(se non avete il tempo di leggerlo, ci sono sempre le parti evidenziate in grassetto)

L'altra sera io ed un mio amico ci stavamo fumando una canna guardando in tv il Cincinnati Pop Festival [...]. La maggior parte del concerto è stata noiosa e concentrata su gruppi come i Grand Funk […] col cantante che si contorceva e abbiaiava e s'inventava nuovi testi come “Tesorino, ho così tanto bisogno del tuo amore … su dammelo … oh topina mia, ecc” ed i Mountain, con Felix Pappalardi che infilava assoli noiosissimi ed interminabili […] mentre quel ciccione di Leslie West,tutto vestito di pelle scamosciata, ci dava dentro con la chitarra e reagiva alle futilità di Pappalardi con larghe smorfie angosciate e felici, storcendo la bocca e sghignazzando e annuendo come se ogni singola nota che usciva dal basso […] lo stesse mandando fuori di testa come nessun'altra musica prima di allora. Io guardavo tutte quelle pagliacciate con un occhio mentre passavo in rassegna la mia libreria alla ricerca di un libro con cui passare il tempo finchè Iggy Pop non compariva sullo schermo, e quando è comparso è stato bello – non quanto guardare Carlos Santana che faceva gli occhi strabici e quel coglione di Contry Joe che compitava la parola FUCK nel film di Woodstock, badate bene, ma era comunque una bella scena – però la parte più stuzzicante del concerto è arrivata durante l'esibizione di Alice Cooper e soci (che, per quanto sia fastidiosa e stridula la loro isteria da checche anfetaminiche, non si possono certo accusare di prendersi troppo sul serio – se ci fosse una rivoluzione, non verrebbero fatti fuori come Pappalardi e West e George Harrison e tutti gli altri), quando Alice si è accucciato, si è gettato il mantello gonfio sopra la zazzera sparata, come il saio di un monaco, mostrando il petto plastificato dagli ormoni, e si è messo a camminare facendo la papera, come un Chuck Berry in preda a un incubo indotto dal giusquiamo, fino al proscenio, dove ha estratto un orologio dalla tasca, l'ha azionato con aria ipnotica e ha cominciato a salmodiare, in tono calmo e colloquiale “I corpi … hanno bisogno … di riposo”, ripetendo sempre con lo stesso ritmo finché lo spiritosone di turno […] che era tra il pubblico a poco distanza da lui non ha gridato “ E con questo?” Bella domanda. Vi immaginate se qualcuno dicesse “E con questo?” quando Richie Havens attacca tutto convinto con la sua Freedom? Naturalmente è una domanda stupida, dato che ci sarebbero subito una trentina di fan devoti di Richie Havens che si precipiterebbero a smazzolare lo zotico boccalone, se non addirittura a farlo secco […]. Ma a nessuno frega un cazzo di quello che dicono ad A.C., men che meno allo stesso A.C., che forse era addirittura deluso di non aver suscitato più lazzi dalla piccionaia, se non che due minuti dopo ha ottenuto reazioni dal pubblico in abbondanza, quando un tiratore provetto nascosto tra la folla gli ha lanciato un'intera torta […] che l'ha preso in piena faccia. E come ha reagito? Come ha recuperato la veneranda e sacra dignità dell'artista durante l'esibizione, che rivendica il palco come un campo magnetico personale, tutto suo dal quale abbagliare e divertire il pubblico indifeso? Bé, si è tolto dalla faccia un po' di appiccicume della torta e se l'è spiaccicato di nuovo sul muso, spalmandoselo bene sui pori e sugli occhi e leccandosi il dito ogni tanto di soppiatto Ha ripetuto quel gesto un bel po' di volte, spalmandoselo in faccia per bene. Il pubblico non ha osato dire nulla.
Lo scopo di tutto ciò […] è farvi notare che per certi aspetti Alice Cooper è meglio di Richie Havens […] perché almeno con Alice Cooper si ha il privilegio di esprimere in maniera creativa la propria reazione al concerto. La maggior parte dei divi del rock intimidiscono a tal punto il pubblico da essere nauseanti. Ah, sarebbe vera giustizia se tutti i divi del rock dovessero trovarsi a fronteggiare il tipo di reazioni che A.C. provoca nel pubblico, se diventasse prassi comune tirare torte in faccia ai musicisti che secondo il pubblico stanno sparando cazzate […]. Perché i rocker più famosi sono circondati da un'aria mitica, da “superstar”, ed è una faccenda pericolosa, anzi è proprio questo il virus che sta mandando a puttane il rock […], che infesta la “nostra” cultura, dai divi del pop ai politici […] ed a cui gli Stooges si oppongono in modo non categorico, come un plotone di avanscoperta nella guerra imminente per ripulire gli schermi cerebrali narcolettici e buggerati di tutta la terra, liberandoci infine tutti quanti da stili di vita sostanzialmente privi di creatività, nei quali spesso gente che non ha nemmeno l'orma del talento o della personalità o del carisma che possiamo avere io o voi viene fatta assurgere a ruolo di divinità. È tutta una montatura pomposa.
Così adesso capite dove voglio andare a parare, perché gli Stooges sono indispensabili […]. Ci vuole coraggio per fare la figura dell'idiota, per dire: “Vedete, è tutta una frode, tutto il concerto e tutto questo carrozzone iperrealistico, pieno di riflettori e droga, e il fatto che voi siete laggiù ed io sono quassu non vuol dire proprio niente”. Perché le cose stanno davvero così. Gli Stooges hanno quel tipo di coraggio, ma pochi altri artisti ce l'hanno. […] La palese verità è che il 99 per cento dei divi del pop non ha il vero carisma, stile o valore per difendere i loro bastioni […] sul palco senza l'aiuto artificiale di cui si sono sempre avvalsi. La maggior parte di loro, se si beccassero una torta sul muso […], non farebbero altro che crollare, attoniti e sconfitti, incapaci per natura di affrontare faccia a faccia la loro base di sostenitori truffati che hanno mangiato la foglia (per colpa della debilitante vita da bambini viziati che hanno vissuto, anche quelli che magari in partenza avevano le palle – fratelli, l'oppressore è grasso e debole!). Semplicemente, […] il tipico divo del pop non è molto intelligente e nemmeno molto consapevole di tante cose che succedono fuori dal suo sostrato luccicante, e vive per metà nel suo mondo di fantasia, dove l'ego e la vanità autocompiaciuta vengono sovralimentati e corrodono la sostanza come una dieta costante a base di cocaina.

Per quanto non si possa essere d'accordo, questo è il Nostro punto di vista. In sostanza, noi andiamo ad un concerto per ascoltare la musica e vedere lo spettacolo, non per osannare un personaggio. È questo che distingue un fenomeno da baraccone da un'artista. Se suoni bene fai il tuo dovere, ma poi è il contatto col pubblico a fare il resto. Il cantante degli Hives, ad esempio, è un montato senza pudore, ma se da una parte dichiara in continuazione che la loro è la miglior rock'n roll band di sempre, dall'altra non perde un momento per far capire al suo pubblico quanto sia importante per loro. Gioca a fare la rockstar, ma è il primo a non crederci, sa benissimo che la loro musica può essere suonata da qualsiasi coglione. È noto per l'abitudine di invitare sul palco la gente ed invitarla a sostituirsi ai musicisti della band e concede sempre vigorose strette di mano al suo pubblico, tanto che nelle pause si fa passare il cellulare dai fan per scattare lui stesso una foto dal palco (cioè invertendo i ruoli canonici del rapporto artista-pubblico) ai fan e poi restituirlo. 


Dal nostro punto di vista, quindi, non si salvano nemmeno fenomeni tanto idolatrati quali John Lennon, Grace Slick, Jim Morrison, George Harrison, Gene Simmons, Bob Dylan ed, in alcuni casi, neanche quel bonaccione di Bob Marley. Tutti hanno i loro indiscussi meriti (nel caso di Gene Simmons sono da attribuire maggiormente all'attività nel backstage piuttosto che a quella sul palco), ma ciò non significa minimamente che siano delle persone superiori alla media. 
Una volta che ti accorgi della tua grandezza, o decidi di diventare una guida, ed in quel caso devi trovare un modo per scinderti dal tuo super alter ego, e trovare un contatto che ti permetta di comunicare col tuo seguito (vedi la lezione del grande Mahatma), oppure tutto finisce per risultare una leziosa pratica di autocompiacimento e di culto del sé.
Perché, in fin dei conti, se quello che fai è grande, questo non significa che tu sia una bella persona, né interessante. A me non interessa sentire le dichiarazioni di Fedez, per esempio, solo perché è un divo. Fedez è un mezzo coglione (ho letto una sua intervista su Rolling Stones per poter dire che lo è solo a metà), quindi deve stare zitto e tornare a fare (sigh) “musica” (anche se sono sicuro che a zappare l'orto se la caverebbe meglio), non ha nessun diritto di stare ad AnnoUno da quella maestrina della Innocenzi, perché se lo ha lui questo diritto allora lo meritiamo sia io che voi e sono sicuro che avremmo argomentazioni molto più interessanti da proporre.


Parte 2: l'importanza della critica

Fare critica può sembrare, in un certo senso, mettersi su un piedistallo. In realtà è diverso, si mette la propria conoscenza al servizio di un giudizio. È un meccanismo noto ed antico, fin nelle forme più arcaiche di organizzazione sociale: il vecchio saggio siede al concilio.
In questo senso, si può dire che il recensore, o critico, ha la “presunzione” di poter giudicare. Può essere. Essendo a conoscenza di avere una competenza in un campo, il suo ruolo non è quello di fare il giudice su mari e monti, ma semplicemente di argomentare le sue opinioni in merito ad un determinato giudizio e pertinente ad un campo limitato (in questo caso, la musica). Questo, in sostanza, è il principio del cosiddetto giornalismo d'opinione. Questo però è un modus operandi che sta ormai scomparendo dalle riviste musicali, in cui ormai i mezzi pareri e le frasi preimpostate vanno per la maggiore (in alcuni casi non ci si cura neanche dell'ortografia, vedi Outsiders). 
Il musicista intelligente, però, vuole sapere che cosa c'è che non va nella sua musica, perché sa che il suo percorso di crescita e continuo e che c'è sempre qualcosa di nuovo da imparare. Quindi ecco che il ruolo del giudice-giornalista trova un suo primo scopo.
In secondo luogo, lo scopo di questo tipo di giornalismo è la formazione e, per citare sempre Bangs, la “liberazione delle masse”. Il recensore si fa carico del dovere morale di dividere la merda dall'oro e indirizzare l'ascoltatore verso una scelta più razionale, e tanto più saranno validi le argomentazioni che sarà in grado di fornirgli, tanto più sarà efficiente il suo lavoro. Se non ci fossero stati i critici, cosa sarebbero stati i Velvet Undeground, i Nirvana, i Sex Pistols, i Clash o i Beatles senza qualcuno che ne capisse e li tirasse fuori dalle bettole? Inoltre, tutto quello che oggi viene definito “underground” non avrebbe mai potuto formare la base da cui i nostri musicisti (professionisti e non) attingono e rielaborano per fare la musica dell'oggi e del domani. E sono proprio quei critici che vanno a rivalutare certi insuccessi commerciali attribuendo loro l'indiscusso merito storico che hanno avuto (come ad esempio, White Light White Heat, The Psychedelic Sound Of 13th Floor Elevators, Pet Sounds, The Kinks are the Village Green Preservation Society). Il ruolo del recensore, inoltre, sempre sul piano storico, è di riuscire a capire ed interpretare per tempo i cambiamenti importanti nel mondo della musica, così come la comprensione profonda del legame tra musica e cambiamenti sociali, e come cioè la musica riflette dei fenomeni ben più di ampio raggio, che riguardano la politica e l'economia. Cosa sarebbero stati il fenomeno del punk, dei mods e della new wave, se non ci fossero stati dei critici-giornalisti, capaci di descriverne la portata e trovare gli stessi termini con cui ancora vengono definiti al giorno d'oggi?
In conclusione, dunque, potremmo forse essere tacciati di presunzione e di saccenza, che del resto rappresentano solo un aspetto collaterale di un modo di esprimersi diretto e senza mezzi termini, e di un'attenzione profonda per i fenomeni analizzati, ma si tenga in considerazione che facciamo quello che facciamo perché ci piace, e perché ci crediamo profondamente. Senza secondi fini.

La redazione, Bangszine

mercoledì 19 novembre 2014

Dinosauri incapaci di estinguersi

Anche questo 2014 che volge alla fine, come tutti gli anni precedenti, del resto,  ha visto affacciarsi sulle classifiche mondiali l'ennesima, inutile proposta discografica di qualche vecchio monolite del rock, incapace di accettare l'idea di un placido ritiro di fine carriera.
Fortunatamente, quest'anno Bob Dylan non c'entra. Se si esclude un fenomeno straordinario come quello di Mulatu Astatke o la straordinaria lucidità creativa di un campione come Peter Gabriel, risulta chiaro ed evidente come ormai al giorno d'oggi le rockstar nate prima degli anni 60 farebbero meglio a restare fuori dalle scene.
Ho deciso così di provvedere ad un'altra selezione della top 5, in senso decrescente, ovvero: dal peggio al meno peggio (se non al meglio), anche perché se dovessimo occuparci di recensire ognuna di queste proposte sarebbe, più che altro, una grande perdita di tempo.

#5 - Aretha Franklin - Rolling In The Deep


72 anni e non mostrarli? Ma no, è solo Photoshop. Aretha Franklin era già visibilmente sovrappeso ai tempi dei Blues Brothers (ed andava già per i 40), oggi a vederla sul palco è una vecchia cicciona e truccata ma, soprattutto, senza un filo di voce (qualsiasi persona con un minimo di nozioni sul canto è in grado di capire come la versione di Aretha sia molto più semplice di Adele, in quanto evita il cambio di registro sugli acuti e si perde in tecnicismi del tutto fuori luogo e mal riusciti). Le sue tette sembrano voler scivolare pericolosamente verso il terreno, come se fossero fatte di piombo, ma la cosa più inquietante è che, per cogliere l'attenzione del pubblico, con buon gesto da big mama, solleva costantemente le braccia flaccide che (bleargh!) farebbe meglio a tenere attaccate al corpo.
Cara Aretha, la tentazione di dare una lezione a quella giovincella amante della dieta ipercalorica che è Adele (che all'apice della sua carriera riuscirà a diventare poco più che una tua emula) è lecita, ma questa era una lezione che avrebbe potuto dare la Aretha di 30 anni fa. Non sei più quella di una volta, sei vecchia. Il tuo posto è a casa, a preparare torte per i tuoi nipotini, non al Sullivan Show!


#4 AC/DC - Play Ball

"Cosa rispondi a quelli che dicono che avete scritto 11 album tutti uguali?"
"Non è vero. Ne abbiamo scritti 12. Fate bene i conti"

Angus Young


Annunciato a dicembre il nuovo album degli AC/DC.
E con questo il conto si allarga. Il nuovo singolo non ha nulla in più da dire. Angus Young era già ridicolo a torso nudo ed in pantaloncini una decina d'anni fa. Adesso che il fratello è morto, è entrato in band il nipote. Bisogna spremere il brand, prima che schiattino tutti. Senza pudore.

#3 U2 - Song Of Innocence


Il nuovo album degli U2 sa di tutto tranne che di U2, se non fosse per la voce di Bono. Il gruppo ci sa sempre fare ed in effetti, per essere un bell'assembramento di canzoni prese a casaccio, rispettivamente per copiare la moda di turno (Arcade Fire e Coldplay in primis), il prodotto riesce, è compatto ed ogni ritornello rappresenta potenzialmente un inno da stadio. Sono pronto a commettere che molti cadranno in questa trappola. Potete usare questo album come buon test per distinguere gli intenditori di musica da quelli che puntualmente scambiano il disco più commerciale ed insipido di una band per l'album dell'anno, esattamente come tre anni fa con Eden dei Subsonica (faceva schifo, ma quanti vostri amici ne hanno parlato bene?) o l'anno scorso con AM degli Arctic Monkeys (su cui ci eravamo già espressi qui). Per quanto riguarda gli U2 stessi, sono così spaventati dal confronto del pubblico che hanno reso l'album direttamente disponibile in forma gratuita su iTunes e Spottify, mentre il video di Every Breaking Wave imperversava direttamente in televisione. Mossa da abili maestri, ma a noi non la si fa.

#2 Pink Floyd - The Endless River

« The Endless River? Non lo ascolterò. Non ho più niente a che fare con loro. » Roger Waters


Ebbene sì, il nuovo album dei Pink Floyd non si merita un articolo tutto per sé. Nato dalle jam del '93 che portarono alla realizzazione di The Division Bell, non è nient'altro che una raccolta di outtake del periodo, la cui qualità sonora a volte risulta non sempre impeccabile (contrariamente a tutte le uscite dei Pink Floyd dal 1972). Del resto i Pink Floyd, già privi della loro mente più feconda dall'abbandono di Barret (Roger Waters), non avrebbero di certo potuto proseguire senza Richard Wright, decesso pochi anni or sono, così hanno deciso di riesumarlo (in senso puramente sonoro) tirando fuori dai cassetti i nastri in cui il contributo del tastierista alla band fosse ancora decisivo.
In fin dei conti, quest'album è molto meno paggio di quanto mi aspettassi. I principali difetti sono 2: il fatto che andava commercializzato non come un album, bensì come una raccolta di outtakes, e la copertina che, pur essendo dello studio Hypgnosis, fa abbastanza cacare.
Lasciando da parte il terribile singolo Louder Than Words e la finale Nervana, le canzoni danno prova di una band in uno stato di salute abbastanza buono, per quanto a volte pecchi di autoreferenzialità e sia facile il ritorno ai cliché di Shine On You Crazy Diamond (Things Left Unsaid), Welcome To The Machine (It's What We Do) e Us And Them (Anisina). Il punto di vincente di questa raccolta strumentale è l'onestà e la semplicità che erano mancate sia a The Division Bell che in A Momentary Lapse Of Reason, in assoluto l'album peggiore del gruppo.
Il mito del gruppo rimane salvo. L'errore più grande della band è stato semplicemente quella di riunirsi nel 1987.

#1 Robert Plant - Lullaby And ... The Ceaseless Roar


Robert Plant va ormai per i 66 anni e ne sono passati 45 dal suo esordio discografico con i Led Zeppelin. A differenza di tanti altri mostriciattoli rugosi che ai tempi d'oro giocavano come lui inserendo i pesci nelle fichette delle fan (non so se ricordate l'episodio, ma per pesce intendo proprio un pesce con tanto di squame e pinne), invece di rimanere ancorato ai vecchi fasti del passato e fotocopiarsi in una serie di prodotti discografici inutili (vedi Deep Purple, AC/DC, Jimmy Page e, bene o male, tutti i gruppi hard rock degli anni 70 che esistono ancor oggi), Plant ha sempre trovato, e specialmente negli ultimi 20 anni, modo di riscattarsi dall'immagine che lo contraddistingueva, avventurandosi in un interessante percorso di sperimentazione sonora e dimostrando di avere capacità e perseveranza. Nei soliti ultimi dieci anni possiamo ricordare l'ottimo duetto con Allison Krauss (Raising Sand)


 i soprendenti tre concerti di reunion coi Led Zeppelin (che ha dato recentemente alle stampe il buon Celebration Day)


 la rifondazione della sua band della gioventù, la Band Of Joy (con cui ha rilasciato il discreto Band Of Joy e, soprattutto, Live From The Artist Den



per arrivare a Lullaby And ... The Ceaseless Roar, che potrebbe rappresentare il suo migliore album in assoluto, forte di una band tutt'altro che convenzionale, i Sensational Space Shifters, con dei fuoriclasse che provengono da Portishead, Cast e Tinariwen.
 Il risultato è una american music che guarda al passato ma anche altrove, tra suggestioni africane ed interessanti sfumature elettroniche in uno straordinario equilibrio stilistico, che non indulge mai nell'autocelebrativo. Il disco finora ha ottenuto una media di 81/100 su 23 recensioni di riviste internazionali importanti.
Sembra proprio, infatti, che lo stesso Plant sia il primo ad aver capito la lezione, e che quindi continui a pubblicare solo perché conscio di avere ancora qualcosa di valido tra le mani. A proposito di quest'album ha dichiarato: 
Forse quest'album segna una fine per me. Non è il solito caleidoscopico di ispirazioni diverse, da Son House a Roni Size alla musica del Gambia, è qualcosa di diverso ed ho l'impressione che chiuda in qualche modo un percorso.

martedì 18 novembre 2014

Hack #5 - Noir Désir - Veuillez rendre l'ame (à qui elle appartient)

La scoperta di questa settimana risale al 1989.


Tanti di voi conosceranno la band per la bellezza cristallina di Le Vens Nou Portera, ma è bene che sappiate che i ND sono stati molto di più. Sono uno dei gruppi più sottovalutati della storia.
Questo album, Veuillez rendre l'ame (à qui elle appartient), che oggi compie 25 anni, rappresenta ormai una vera e propria pietra miliare della storia francese.
Un album semplice ed onesto, adolescenziale e maturo al tempo stesso, che rese i Noir Désir uno dei gruppi più importanti della storia della musica francese e che ancora oggi, forse per un'inconsapevole ostilità che teniamo nei confronti delle opere in lingua francese che non riguardino Rimbaut o Pennac, non ha ottenuto il posto che gli spetta nell'olimpo degli album new wave.
Bertrand Cantat, allora ben lungi dallo sgozzare la moglie, è un cantante fenomenale, le cui potenzialità sono pari a quelle che aveva Heat Ledger come attore.
Un ascolto è d'obbligo, anche se i Noir Désire si sono sciolti ormai da quattro anni.



La discografia dei Noir Desiré è interamente scaricabile a questo link.