domenica 24 maggio 2015

Lago Volstok - Decorso Infausto


Amouse Bouche
L'altro dopo l'uno
Aria In Catene
In Pasto Ai Soprofiti
Cañero
 Crazy Crazy Man Only Wants To Kill Italians




Premetto che non sono un patito del noize e spesso un ascolto, neanche forzato, mi aiuta ad entrare dentro alla logica del genere. Io credo che si tratti semplicemente di un genere nato per essere proposto dal vivo. Non descriverei mai la mia esperienza di ascolto con gli Shellac come positiva, ma resto dell'idea che assistere ad un loro concerto è stata un'esperienza irriperibile. Lo stesso potrei dire per i Jesus Lizard o, volendo spostarci verso delle coordinate più pop, del Teatro degli Orrori. Il noize è un genere che nasce per il live, eppure i dischi in studio sono necessari per tirare avanti. I pezzi bisogna farli conoscere.
Ecco che quindi cerco di cambiare idea sui giovani Lago Volstok. Di loro si è detto poco e nulla, ma se n'è parlato bene. Pochi ancora i fan su facebook (siamo sui 500) nonostante qualche webzine qua e là li ha descritti come i nuovi fenomeni del noize italiano, scomodando persino paragoni con gli Zu ed altri mostri sacri. A questo punto mi sento obbligato a dover parlare di John Zorn e dei Naked City, per completare il quadro dei paragoni incomodi.
Inutile, infatti, fare riferimento alla scena jazz core internazionale.
Ad un primo ascolto il disco non mi piace. 
I Lago Volstok si presentano con un sound estremamente scarno, caustico in cui probabilmente l'approccio low fi alla qualità della registrazione incide profondamente. Power Trio, li hanno definiti (chissà che cosa ne penserebbero i Cream...). La classica formazione a la Shellac: basso con boost/fuzz suonato rigorosamente con un plettrone spesso un centimetro, chitarra quasi sempre sul distorto, batteria pestona. Il sound è opprimente, soffocante come lo smog che si accumula al ridosso delle montagne lombarde. In questo senso, titoli come Aria In Catene risultano quanto mai appropriati. La prima traccia, Amouse Bouche, riesce ad essere piuttosto esemplificativa della dichiarazione d'intenti. Se l'idea iniziale è quella di avere a che fare con certe melodie proprie del post-rock, nel giro di neanche trenta secondi, il gioco è chiaro. Siamo effettivamente dalla parti dei Dead Elephants, di quel noize un po' metallaro a cui non dispiacciono i breakdown, ma senza voce.
La prima del pezzo è carino, ma la coda è piuttosto prevedibile. Potrei che dire che questa idea è abbastanza simile a quella che mi son fatto del resto del disco. Noize ed imprevedibilità, cambi improvvisi ed inaspettati. Non sempre il gioco funziona, come nello stesso, prevedibilissimo cambio alla fine del pezzo, o verso la chiusura del secondo, L'altro dopo l'uno.
Quest'ultimo, il cui riff è palesemente plagiato da Floyd The Barber, suona come una rilettura del classico dei Nirvana in chiave cuneese.


Non che questo mi dispiaccia. Piuttosto, è quel genere di cose che mi fa avere un po' di speranza nella band. La maggior parte dei musicisti dentro al giro del noize ha un atteggiamento piuttosto prevenuto nei confronti dei Nirvana. In realtà, io credo che il confine tra i tre generi, il grunge, il noize ed un certo doom metal proprio dell'inizio degli anni 90, sia estremamente sottile (non è un caso che sia stato proprio Albini a produrre In Utero). I Nirvana hanno avuto il merito di elaborare un linguaggio estremamente istintivo, semplice e soprattutto fruibile con cui portare certe soluzioni armoniche e ritmiche proprie di questi due generi di nicchia all'attenzione della massa. Se l'intento dei Lago Volstok è proprio quello di liberarsi dalle limitazioni di un genere che, seppur offra una grande libertà di soluzioni ritmiche, è per sua natura fin troppo amelodico, vorrà dire che sarà il caso di tenerli d'occhio in futuro. Inutile quindi giocare a fare i critici che tirano fuori dal cappello i nomi più sconosciuti dei generi di nicchia, perché questi hanno orecchio ovunque. Il riff del conclusivo Crazy Crazy Man Only Wants To Kill Italians - in assoluto il pezzo più notevole del disco, potrebb'essere tranquillamente uscito da un disco dei Foo Fighters, anche se quelli che fanno capolino dopo circa due minuti sembrano di nuovo i Nirvana di Bleach/In Utero e, soprattutto, la mentalità melodico-ritmica dei Fuh.


Post Hardcore, grunge e noize s'incontrano, s'inseguono e si fondono in una per circa otto minuti, per poi adagiarsi su una coda melodica (l'idea de "la calma dopo la tempesta") e lasciare spazio all'immancabile (per quanto inutile) ghost track, ancora più casinara e chiassosa delle precedenti.
Decorso Infausto non è affatto male come esordio. Nel complesso si ha che fare con una band ancora molto fedele a certi stilemi stilistici - quelli del noize strumentale - che non osa troppo ma che mostra avere ottime capacità di controllo e di padronanza dei propri mezzi. La tendenza adolescenziale al cambio improvviso, con la rottura netta del discorso musicale e del flusso emozionale, mettendo insieme parti differenti che non hanno niente a che fare l'una con l'altra, rimane ancora uno dei limiti compositivi - ma del resto, intrinseci nelle limitatezze del genere - sui quali la band deve lavorare. I ricchi spunti non mancano. Il momento di respiro prima dell'incalzante finale di In Pasto Ai Soprofiti o l'equilibrio tra le parti di Cañero, fanno pensare ad una maturità compositiva vicina e che l'idea che tre riff ripetuti all'infinito ed un mare di rumori siano di per sé sufficienti a partorire un bel pezzo sia ormai superata.
Resto comunque dell'idea che dovrei ascoltarli su un palco, perché questo non è il genere di musica da ascoltare a casa, seduti su una sedia.
Quest'album ha già quasi un paio d'anni, ormai i tempi dovrebbero essere maturi. Fate uscire questo secondo disco e ne riparliamo.

VOTO: 65/100

Federico - chitarra
Andrea - basso
Luca - batteria 


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sabato 9 maggio 2015

C'eravamo tanto sbagliati


Vi chiederete, voi pochi lettori, voi curiosoni, voi che mi volete bene, voi che non mi sopportate, ma soprattutto voi che vi aspettavate una specie di webzine e che vi ritrovate per le mani un diario digitale mal scritto, incongruente e pieno di alti e bassi, se questa pagina, ed io che me ne occupo, abbia perso di vista i suoi obbiettivi.
Uso la prima persona, parlando a nome di “tutti”, perché credo sia giunto il momento di gettare un paio di maschere. La sincerità è sempre stata una dei pilastri fondamentali di questo spazio di riflessione e non vedo perché dovrebbe venire in meno anche in un momento difficile come questo.
Voglio infatti ammettere che la gestione Bangszine sta avendo qualche problema. Il motivo è duplice: quello principale è dovuto al mio ritrovato amore per la chitarra ed all'impegno quotidiano che tale sodalizio comporta; il secondo è dovuto ai miei collaboratori, non solo esigui, ma anche piuttosto pigri. Non riesco a stare dietro al blog come vorrei, né posso affidarlo a qualcun altro. Tra esami e chitarra, Bangszine passa in secondo piano e, sebbene i miglioramenti sulle sei corde rimangano ancora relegati ad una dimensione amatoriale, è a livello di ascolto che mi rendo conto di fare passi da gigante. Avevo dimenticato, nella mia inerzia chitarristica, quanto la comprensione approfondita di un discorso musicale fosse strettamente, forse intrinsecamente connessa all'esecuzione.
Per farvi un esempio, in tutti questi anni non sono mai riuscito a capire B.B. King, o Clapton. Li ascoltavo, sia chiaro, ma come un buon studente che debba ottemperare ai suoi compiti. Il primo mi sembrava un chitarrista assolutamente privo di appeal, il secondo un buon chitarrista rock ed un compositore piuttosto scialbo – almeno, dalla seconda metà dei settanta in poi. Solo riprendendo da capo i miei studi di blues sono riuscito a capirne la grandezza. Non potrei infatti spiegarvi i motivi a parole. Vi posso solo dire è necessario studiarne i pezzi per capirne il genio, perché un ascolto non sarà né sufficiente né indicativo. È una di quelle cose che non si possono raccontare, bisogna provarle.


http://www.gibson.com/en-us/lifestyle/lessons/lesson-of-the-day/bb-king-box-position/ 

Le vere ragioni di questo articolo, però, sono altre. Ci sono molte altre cose su cui ho avuto modo di ricredermi.
La prima, è che l'impronta data finora a questo blog non funziona affatto. Non ha senso pubblicare sporadicamente degli articoli lunghissimi, soprattutto su internet. È un modo automatico per creare disinteresse. Il lettore del web è pigro, a meno che non si parli di lui in prima persona.
I prossimi articoli saranno differenti, più concisi, almeno per quanto riguarda il piano personale. Non vi parlerò più delle donne che non me l'hanno data, ma nemmeno degli amici con cui mi fumo le canne, a meno che l'articolo non parli esclusivamente di questo. Il background delle band resterà di primaria importanza e smetterò persino di parlare di atteggiamenti da palco.
E sapete perché? Perché, volendo parafrasare gli Stato Sociale, mi sono tanto sbagliato. Non che con questo io intenda che tutto quello che ho detto finora sono stronzate. Anzi, rettifico tutto quanto e sono contento di averlo tirato fuori. Diciamo che questo periodo di inattività mi è servito e non devo lasciarmi perdere l'occasione di condividere la mia epifania.


Quello che ho assunto finora è un atteggiamento polemico, a volte forse persino bacchettone. Rileggendo alcuni articoli, mi sono reso conto di come puntualmente il discorso musicale si affievolisse e passasse in secondo piano rispetto ad un'attenzione così meticolosa rispetto agli atteggiamenti da palco da sfiorare quasi l'ossessione. Questo, sicuramente, è dovuto a dei precedenti che mi hanno fatto vivere male la città di Torino. Dopo attente riflessioni, non solo mi sono reso conto di quanto sia improduttivo e fuori luogo proporre questo genere di riflessione nel 2015, ma di quanto questo atteggiamento sia persino anacronistico.
In fin dei conti, la spacconaggine e la pressoché incapacità totale di modestia è una prerogativa tipicamente italiana. Il mio berciare è una lotta contro ai mulini a vento ed io non ho nessuna intenzione di impersonare il Don Chischiotte. Credo di essermi sbagliato, sia nel determinare una scala di valori che rappresentasse adeguatamente il mio punto di vista, sia nella modalità in cui ho tentato di trasmetterlo.
La realtà è che inutile parlare del morbo che affligge Torino, perché i torinesi non cambieranno mai. Il mio problema coi torinesi, semmai, è legato ad un fattore principalmente culturale. Non sono torinese, i torinesi non li ho mai capiti e, per quanto mi sforzi, loro continueranno a ritenermi maleducato, sfacciato e perennemente inappropriato ed io a considerarli degli ipocriti iperformali incapaci di mettere in chiaro il loro punto di vista. È inutile che io continui a battibeccare, perché la risposta a tutto questo è sempre stata a disposizione in un vecchio proverbio popolare: “posto che vai, gente che trovi”. L'atteggiamento maturo sta nell'adattarsi senza giudicare.
Nessuno vuole un padre che li giudichi dall'alto. La natura ci ha già dato una famiglia per questo e l'esperienza i nostri amici più cari.
Inutile anche indulgere sugli italiani in generale. Un buon esempio per esprimere il mio punto di vista è l'approccio dell'italiano all'internazionalità. 

La modalità con cui interagiamo col resto del mondo non è nient'altro che un riflesso di come siamo fatti. La ghettizzazione di ogni singola nazionalità, ad esempio, in una festa erasmus, o in un meeting, in questo genere di situazioni, è una tendenza naturale, sia per questioni d'appartenenza culturale che linguistica. Eppure, la motivazione che spinge ad interagire con l'esterno sembra generalmente essere diversa da paese a paese. Gli italiani, anche quelli che provengono da un substrato culturale piuttosto elevato, sembrano essere guidati solo da una motivazione: il sesso. Solo una piccolissima percentuale si perde a far conversazione per il puro piacere d'intrattenersi. I ragazzi tendono a ronzare nel loro piccolo branco, sbevazzando e buttando occhiate in giro, come se aspettassero il momento di lanciarsi sulla preda; le ragazze, specialmente quelle carine d'aspetto, tendono ad isolarsi, a fumarsi una sigaretta guardando il resto della plebaglia, sedute sul loro piccolo trono.
Principesse della festa autoinvestite. 
È ovvio che questo genere di approccio abbia generato una nomea ed uno stereotipo degli italiani all'estero come amanti estremamente attenti e passionali. Eppure, l'idea che mi sono fatto è che questo atteggiamento quasi ancestrale, o tribale, abbia le sue radici nel fatto che siamo un popolo poco evoluto dal punto vista del rapporto di coppia, ancora incapace di concepire che esista l'amicizia tra uomo e donna e che, soprattutto, due persone di sesso opposto possano interagire senza l'obbiettivo di finire in camera da letto. In un certo senso, siamo ancora dei poveri bifolchi, dei contadinotti civilizzati troppo in fretta, altrimenti non si spiegherebbero come certi atteggiamenti da scuole elementari ce le portiamo dietro fino ai trent'anni.
Nei precedenti articoli, ho fatto cenno al problema della sovrappopolazione. Senza indulgere nell'argomento, troppo copioso per questo articoletto, vorrei semplicemente fare presente che ad oggi, anno 2015, gli Italiani sono meno dell'1% della popolazione mondiale. Siamo un paesino piccolissimo. Esistono conurbazioni più popolate dell'intera Italia. Non siamo abituati a concepire quanto non abbia senso ingigantire il nostro ego in determinate situazioni. Siamo ancora troppo legati ad una dimensione rurale per capire che la nostra influenza è minima e che non ha senso gonfiarsi come palloni appena se ne ha l'occasione. Se vivessimo in un paese da 200 milioni di abitanti come gli USA, o in una città da venti milioni di abitanti, questo discorso non ce lo dovrebbero neanche spiegare, perché lo metabolizzeremmo già negli anni di crescita ed impareremo a conviverci. Essere formiche avrà forse i suoi limiti, ma permette di percepire l'immediatezza e la necessità del contatto e dell'aiuto del prossimo. È la paura che ci guida al tentativo disperato di emergere sugli altri e, a volte, persino di schiacciarli, la paura di perdere un'identità, liquefarci ed appiattirci sullo status quo.
Quello che non abbiamo capito è che noi siamo già status quo, irrimediabilmente. Facciamo tutti la spesa al supermercato, la cacca e la pipì e mangiamo nella stessa maniera: ma geneticamente siamo unici. Questo basta e avanza!
Gli italiani se la tirano e se la tireranno sempre sul palco. In un lontano futuro, chissà, forse tutti impareranno ad essere simpatici ed alla mano come gli Zen Circus. Nel frattempo, eviterò di condannare tutte queste creature che non sanno contenere il loro ego, colpevoli solo di aver ereditato un bagaglio storico troppo importante ed ingombrante, in questo Paese così splendido, affascinante ed incorreggibile ma che, ad un'attenta revisione, sembra proprio così simile un piccolo stivale puzzolente, a una vecchia scarpa consunta.