giovedì 30 ottobre 2014

Techno?

Piaciuta Suor Cristina? Andate in bagno, masturbatevi, vomitate, fatevi una lavanda gastrica e poi una tisanina per depurarvi dalle scorie in eccesso.

lunedì 20 ottobre 2014

Suor Cristina vuole essere toccata


 
Che bello che è vivere in questo Paese.
Fai la vita di tutti giorni, poi ad un tratto arriva sempre una notizia in grado di rendere la routine un po' meno opprimente. Corruzione, tangenti, Ruby, mafiosi che scappano in Libano, suore che cantano Madonna. 
Eh sì, non suore che cantano la Madonna, come tutti i Santi giorni. Suore che cantano Madonna. Neanche i Simpson o South Park erano stati capaci di tanto.


Forse molti liquideranno questa come l'ennesima stupidata dello Stivale, si faranno una risata, un commentino acido e passeranno oltre, ma non si rendono conto di quanto sia epocale la svolta che il brano Like A Virgin di Sister Cristina (produzione Universal) introdurrà nelle nostre vite - quanti interessanti paradossi ci libereranno dall'uggio quotidiano. 


Per la prima volta nella Storia, con il tempismo tipico con cui il sistema ecclesiastico riesce ad adeguarsi ai costumi moderni (Twitter a parte), la Chiesa entra nelle classifiche pop. Per la prima volta, possiamo essere informati dell'ultimissima novità musicale direttamente sull'Avvenire, senza doverci rivolgere a mensili specializzati come Rolling Stones, o XL. Pensate che comodità



E forse non è finita qui. Tra un paio d'anni sulla copertina dell'avvenire potremmo trovare una enorme Croce rosso fuoco: "Il nuovo album dei Justice - con le loro opinioni di Nostra Santità". E non è finita qui.
Nell'articolo dell'Avvenire, Suor Cristina dichiara: «L’ho scelta io. Senza nessuna volontà di provocare o di scandalizzare. Leggendo il testo, senza farsi influenzare dai precedenti, si scopre che è una canzone sulla capacità dell’amore di fare nuove le persone. Di riscattarle dal loro passato. Ed è così che io ho voluto interpretarla. Per questo l’abbiamo trasformata dal brano pop-dance che era, in una ballata romantica un po’ alla Amos Lee. Cioè a qualcosa di più simile a una preghiera laica che a un brano pop». Secondo la cantante, un riarrangiamento in chiave pop romantico cambierà l'ottica d'interpretazione del testo, privandolo dell'allusione sessuale a cui fa riferimento. E perché no? Immaginatevi Bob Marley che riarrangia Faccetta Nera in versione reggae: "è una bella canzone, ho pensato di dargli un po' di groove giamacaino. In fondo il motivo è orecchiabile ed è un omaggio alle nostre sorelle in Abissinia".
 Forse, finalmente, anche i giovani cattolici, durante i sabati sera passati in Chiesa, potranno finalmente suonare Il Tempo Di Morire come tutti gli altri, basterà provvedere a riarrangiare la canzone sugli accordi di My Heart Will Go On.
Insomma, in fin dei conti una suora è pur libera di cantare: Like a virgin/ Touched for the very first time/ Like a virgin
When your heart beats/ Next to mine/ Like a virgin, ooh, ooh/ Like a virgin/ Feels so good inside/ When you hold me, and your heart beats, and you love me/
: ciò rappresenta l'estetica rock al suo apice. Il rock finalmente ha sconfitto tutti i tabù esistenti. In confronto la ballata sensuale di Elvis, Sympathy For The Devil, le pacchianate di Alice Cooper e Ozzy Osbourne, le tette di Blurred Lines sono semplici ragazzate. Questo brano è la cosa più hardcore che avessi mai sentito dai tempi di GG Allin - con la differenza che lo sentiranno le mamme, le bambine e forse persino le nonne, convinte di sostenere la Buona Causa.
Oggi, 20 Ottobre 2014, una Suora canta davanti a tutto il mondo, con fierezza, che quando qualcosa di inaspettatamente grosso entra dentro il corpo di una donna può fare male, ma anche essere inaspettatamente piacevole. 
Sono commosso. In confronto Miley Cyrus è una novellina.
La voce di Sister Cristina non sfigura affatto rispetto a quella della Regina del Pop. Al contrario, mi auguro che la Sorella s'impegni nei prossimi tempi a rivisitare il catalogo della signora Ciccone, e che la prossima cover sia questa:




venerdì 17 ottobre 2014

Hendrix si rigira nella tomba



Da buon appassionato di biopic sulla vita dei musicisti che hanno fatto la storia, l'uscita al cinema di Jimi – All Is By My Side mi aveva inizialmente fatto saltare sulla sedia. Mi ero sempre chiesto perché nessuno ci avesse mai pensato prima. In fondo, la storia di Jimi Hendrix è piena di pathos e di umanità, per certi versi decisamente più interessante di quella di personaggi ben più celebri come i Fab Four. Nato povero, da paracadutista nell'aviazione americana a chitarrista rivoluzionario, dalle timide esibizioni come turnista nella band di Curtis Knight alla Experience alla Band Of Gipsies ed alla straordinaria esibizione di Woodstock: dopo la consacrazione del festival di Monterey, il mito di Jimi Hendrix si è bruciato velocemente come una fiamma di un cerino, tra un eccesso di droga e l'altro.
 Un personaggio timido, riservato, spesso inconsapevole della grandezza del suo talento, che suonava la chitarra con uno stile tutto suo, un ingenuo, modesto, buono, spesso descritto come un amante tenero; insomma il personaggio ideale per la trama di un biopic.

Il film di John Ridley, pesantemente minato dall'impossibilità di utilizzare i brani originali dell'artista, ha optato per il ritratto del personaggio più da dietro le quinte, ossia ai tempi produttivi della Swingin' London e della formazione della Experience, piuttosto che all'apice della sua carriera. Pur avvalendosi della stupenda interpretazione di André Benjamin, la cui somiglianza col chitarrista lo fa sembrare il fratello bello dell'originale, nonostante abbia circa quindic'anni in più rispetto all'età in cui Jimi è morto, il film ha il difetto di avvalersi di un montaggio che spezza il flusso cronologico, anticipando ciò che ancora deve succedere. Ogni conversazione, pertanto, sembra rimandare ad un avvenimento importante, del quale si dà per scontato che lo spettatore sia a conoscenza. Il ricorso ai freeze-frame che annunciano la comparsa di personaggi degni di rilievo (Keith Richards, George Harrison, Eric Clapton, Adam Sandler,  Noel Redding, Mitch Mitchell, etc...) sono per la maggior parte gratuiti e non si addicono al ruolo marginale che questi personaggi assumono nella narrazione. Si ha pertanto la spiacevole sensazione, durante la intera durata della pellicola, che il film non potrebbe sussistere senza qualcosa che esiste al di fuori del film stesso. In particolare pesa come un macigno la scelta di tagliare la famosa versione di Wild Thing al festival di Monterey in cui avvenne il rogo più famoso del rock.


Le scene clou che rimangono sono le piccole esibizioni live nella Swingin' London, su cui spicca in particolare la jam coi Cream (con la fuga di Clapton dal palco ai camerini) e l'esibizione di Stg Peppers Lonely Hearts Club Band davanti ai Beatles. 

In fin dei conti, si può dire che nel riprodurre l'ambientazione storica e la semplicità genuina dell'artista, un po' hippie un po' semplicione, il film abbia perfettamente centrato il suo scopo. Quello che manca è una trama seria che scuota seriamente lo spettatore e che tratti quelle tematiche che hanno realmente rappresentato le difficoltà di Hendrix al suo tempo (la povertà, l'essere nero, le droghe) e che invece sono solo trattate marginalmente, per lasciare spazio ad una storia ampiamente romanzata che vede nel mezzo quella gnoccolona di Linda Keith (Imogen Poots), che non gliela dà, lo bacchetta costantemente, lo vuole tutto per sé ed intanto si fotte Keith Richards, e Kathy Etchingham (Hayley Atwell), con la quale Jimi intrattiene una relazione alternata dai suoi raptus violenti. La stessa Kathy Etchingham ha recentemente dichiarato quanto quelle scene fossero fittizie ed, al contrario, ha descritto Jimi come un gentiluomo. D'altronde, dal momento che questa descrizione coincide con quella di altre donne che sono passate sul sentiero dell'amore di Hendrix, che bisogno c'era di rappresentarlo come un uomo violento, lunatico, superficiale e pieno di sé? Dov'è l'intento celebrativo della locandina? Il film sembra quasi passare il messaggio, pericoloso ed assai diffuso nella società capitalistica americana, che se sei qualcuno di speciale, di unico, allora puoi superare le barriere normalmente imposte agli altri, come quella di picchiare una donna.
Non voglio andare oltre.
Esistono documentari pregevoli sulla vita e sull'opera di Hendrix che vale la pena di guardare. Se volete farvi un'idea di chi Hendrix fosse realmente, andate a farvela da qualche altra parte.

giovedì 16 ottobre 2014

Funk Selecta

Salve psiconauti e funkonauti

questa settimana la selecta invoca culi danzanti
ecco la selezia

#5 Parliament - Unfunky Ufo (1975)


Un po' banalotta, ma è groove che insegna. Ascolto le voci e mi sbrodolo.

#4 The Highlighters - The Funky 16 Corners (1969)


Come James Brown, o forse meglio. Non perdetevi la raccolta col titolo omonimo!

#3 Mario Garcia - Sr. Cisne (1980)


Lo sapevate che in Uruguay si è creata una scuola di funk unica al mondo, in cui i ritmi africani si sono mescolati alle tradizioni locali, per di più debitrici della scuola di chitarra spagnola? Beh, sapevatelo!

#2 The Shaolin Afronauts - Kilimanjaro (2008)


Afrobeat, ma che cazzo è? Mi piace. Sa d'Africa, di Jazz, di marcio, di qualcos'altro.

#1 Hannah Williams & The Tastemakers - Don't Tell Me (2010)


Groovy da paura. Chissà mai che passino in Italia?

martedì 14 ottobre 2014

Chicche per chitarristi - Jon Goom

Avevo già sentito parlare della Slap Hand Guitar: è una tecnica che sicuramente permetterà alle future generazioni di chitarristi di ritagliarsi un ruolo sempre più importante all'interno delle composizioni.
La tecnica Slap Hand, sostanzialmente, consiste nell'accoppiare la produzione di note sul manico con la percussività dei due lati della cassa di risonanza. In questo modo, sviluppata la coordinazione adeguata, il chitarrista è in grado di produrre la melodia ed accompagnarsi da solo attraverso ritmi anche piuttosto complicati.
L'esempio più semplice che posso proporvi è questo famosissimo pezzo acustico dai toni postrockeggianti. La tecnica Slap Hand è qui però solo accennata.



Lo step successivo è quello di introdurre la tecnica del tapping a due mani, tipicamente propria dei bassisti dalle sei corde in su, che comporta l'utilizzo della mano che solitamente scorre sul manico per la produzione della linea di basso, mentre quella che si occupa delle corde si sposta sulla parte più bassa del manico a produrre il tema, e coordinarla con quella Slap Hand.



Poi, se uno è veramente un cignale, può a sua volta combinare la coordinazione di queste due tecniche (Slap Hand e tapping) con il canto, in modo così da svolgere la funzioni normalmente assegnate a 4 membri diversi di una band. Dopotutto, una volta imparate le doti di coordinazione necessarie allo Slap Hand, cantarci sopra sembrerebbe proprio la parte più semplice.


 Jon Gomm è andato ancora oltre a tutto questo. La sua tecnica prevede anche l'utilizzo di riff prodotti da armonici artificiali (cioè, prodotti pizzicando 12 tasti sotto la nota desiderata) che poi vengono modulati scordando la chitarra fino al punto desiderato. Tutto questo, ovviamente, mentre percuote la chitarra, suona in tapping, canta, prepara il caffè, stende le lenzuola e si gratta la schiena. Secondo me è autistico.


domenica 12 ottobre 2014

Mothercar - Primo Disco




Der Sonnenaufgang Kommt Nie Für Sie
Pezzo 1
Weed Canaja
Sweet Caroll And The Dog Sons
Blak Owl
From That What You Say
Enfisema
MutterAuto (HiddenTrack)

Corri, vai al lavoro. Università. Scadenze precise. Cazzo devo recensire il disco di quel gruppo, come si chiamavano? I Mothercar. Strano nome. No, effettivamente suona bene. Mo Ther Car. Perché no? Auto e macchina, in fondo non sono nient'altro che i desideri primari dell'uomo secondo la visione capitalistica moderna … non sarà che questi Mothercar saranno degli anarcoidi? Vediamo un po': cd presentato ad El Paso, detto anche El Paso occupato. Video del singolo girato in una casa abbandonata, chissà dove (Torino, sicuro); copertina ripresa dallo schema decorativo interno alla casa. I Mothercar vengono da Chivasso, non da Torino, e ci tengono a dirlo. Ecco un buono spunto interessante: di solito tutti fanno al contrario. In effetti, con le altre band torinesi, i Mothercar hanno ben poco da spartire. La differenza sta innanzitutto nel format a tre, che comporterebbe una serie di limitazioni davvero notevoli, se non fosse che Niccolò Boscolo è in assoluto uno dei migliori chitarristi della zona, a mia detta forse secondo solo a Lorenzo Riccardino dei Glooom. Il secondo aspetto discernitivo importante è l'atteggiamento bonario e sinistrorso della band: un evidente e frequente richiamo alle tematiche politiche cruciali dei nostri tempi, senza perdersi troppo nella retorica – tipicamente propria degli artisti che raggiungono una certa notorietà nel capoluogo piemontese – secondo cui l'artista dovrebbe sentirsi autorizzato a far proseliti su tematiche importanti in quanto in quanto autoinvestito di una superiorità morale direttamente trascesa da un'entità metafisica più o meno definita. I Mothercar, invece, non si perdono in chiacchiere, non vanno al Margot a farsi offrire il cocktail fino alle 3 di sera per circondarsi di ragazzine diciannovenni e sperare di incontrare il vecchio Samuel che alla veneranda età di 45 anni forse passerà a pescare una squinzietta del primo anno di filosofia per il pompino domenicale. No, i Mothercar un giorno probabilmente distribuiscono cibo gratuito alla mensa per poveri e la domenica vanno a prendersi i lacrimogeni in faccia in val di Susa. La preoccupazione dei Mothercar non è la dialettica dell'”io,io,io,io, IO” , ma piuttosto quella, sana, del “sono una persona normale, faccio delle cose nella vita e nel tempo libero mi piace tanto, ma tanto suonare”. 
I Mothercar sono la musica che fanno: ed è indubbiamente per questo che sono così bravi.


Attivi dal 2010, i Mothercar avevano già pubblicato una demo (nel 2012) che era forse il lavoro più minimale degli ultimi dieci anni di vita musicale torinese: copertina orrenda, titoli inesistenti, pezzi abbozzati. Non era affatto male, c'erano solo un po' di cose da rivedere.
Eccoli quindi arrivare all'etichetta Scatti Vorticosi: inciso l'album, i MadreAuto hanno letteralmente osannato sulla loro pagina facebook tutto il catalogo dell'etichetta, col risultato che il loro link, sulla pagina web di Scatti Vorticosi, non è ancora presente. Ma non preoccupiamoci no? Questa è la prassi! Tu mi fai incidere un album, dopodiché sarà sicuramente io con i miei 600 fan su facebook a farmi pubblicità da solo: funzionerà sicuramente!
Ma torniamo ai Mothercar, adesso, ed alla loro musica: saranno già parecchi stufi di sentir parlare di come si vestono, di atteggiamenti ed etichette.



Il loro disco, intitolato proletariamente (ok, la smetto) Primo Disco, ci mostra una band alle prese con un bagaglio di influenze piuttosto ampio e difficilmente coniugabile, il che ha reso particolarmente interessante e difficile scrivere questa recensione. Senza dubbio i tre tratti somatici principali sono l'hardcore, inteso non solo come riferimento musicale e culturale ma anche come atteggiamento sonoro, che si riflette anche in certe distorsioni e linee di batteria decisamente stoner; un amore appassionato per gli anni 70 e per gli arpeggi melodici ed il tentativo continuo di contaminare il tutto con linee proprie della drum'n bass. Tuttavia, utilizzare i termini così in fretta fa perdere in fretta le coordinate musicali di riferimento. Definire il disco come “post rock” potrebb'essere una sana indicazione, se per post-rock s'intende il superamento della forma canzone in funzione di uno schema compositivo più libero, ma non aspettatevi niente a che vedere con i Mogwai o con gli Explosions In The Sky, siete completamente fuori strada. Io, invece, penserei più ad un gruppo (e, devo dire, mi sono stupito nel trovarlo tra le influenze rivendicate dai Mothercar stessi) come i Neu! se volessi far riferimento al pezzo di apertura, Der Sonnenaufgang Kommt Nie Fur Sie (Il sole non arriva mai per voi), ed agli Ash Ra Temple. Il pezzo si può dividere, e neanche tanto idealmente, in due parti completamente differenti e che sembrano montate insieme senza uno schema logico. Con questo non intendo affatto che lo stacco netto mi dispiaccia. Anzi. La prima parte potrebbe anche certi artisti italiani come i Giardini di Mirò o gli Hermitage, la seconda, per dare un'indicazione abbastanza sbrigativa, è assai più vicina agli Stooges e la voce mi ricorda i Colour Haze. Un gruppo questo, che io consiglierei assai ai padiglioni auricolari dei tre membri del power trio. Ecco qua:

 
La voce di Borello è infatti un buon basso. Il falsetto funziona, e lo strillo in stile Bent Sæther regge (Pezzo 1), ma si perde sulle note medioacute. È evidente come la voce nei pezzi passi in secondo piano, ma questo tuttavia rappresenta un motivo valido per archivarne le capacità. Una buona voce bassa potrebbe avere delle potenzialità inaspettate, e con questo io non dico che il vostro cantante dovrebbe imparare a cantare: basta solo che capisca dove la sua voce rende meglio. È una strada in salita, ma rende maggiormente. From That What You Say è penalizzata nella parte del crescendo postrockeggiante: se la chitarra già segue un moto verticale, è inutile che la voce, seguendo le stesse coordinate, si vada ad inoltrare su lidi difficilmente accessibili! Armonicamente è una ripetizione inutile, forse basterebbe mettere un coro per smorzare l'effetto.


Le due canzoni che seguono sono tratte dal demo d'esordio: la prima, che reca anche la firma di Federico Esposito (membro fondatore della band, non più presente), è in assoluto il primo pezzo del gruppo e ciò si avvisa nell'insipidità pressoché totale dei primi 25 secondi iniziali. Segue una voce modificata che canta “I see you fight, I see you fight and I'll be standing for you”, fin qui un orecchio inesperto bannerebbe la canzone come pezzo da band liceale. Ciò che invece io ritengo interessante è come in questa traccia si nascondano tutte le coordinate stilistiche del gruppo: la inaspettata linea di batteria dnb della strofa che fa da contraltare all'arpeggio in maggiore, lo stacco stoner e la ripresa improvvisa del ritmo dnb. Poi ritorna il bridge, ma stavolta il tempo tra uno stacco e l'altro si riduce, ed ecco che appare un irresistibile riffone a 1:35 e di colpo si ritorna agli anni 70. Lo stacco che segue al minuto 2:00 non è il massimo dell'inventiva, ma è stupendo come si ricollega al riffone di prima in un microcrescendo di 30 secondi. Lo schema si ripete e s'interrompe a 3:17 con uno dei riff semitonali più stupidi del mondo, ma è evidente che l'interesse è puramente ritmico, tanto che l'estro del batterista ci fa dimenticare quanto quella soluzione fosse imbarazzante ed ancora una volta il rientro sulla strofa è in grado di stupirci. Pezzo 1 mi piace per la sua genuina ingenuità: è una precisa dichiarazione di intenti artistici, ma dichiara anche apertamente: “ehi, che cosa volete, guardate che è il primo cazzo di pezzo che abbiamo scritto!”.
Il pezzo che segue, Weed Canaja, è un singolone mancato ed è decisamente più maturo del precedente. Ha una bellissima apertura che mi ricorda qualcosa a metà tra Sonic Youth e Motorpsycho e poi si perde di nuovo su un arpeggino melodico, fino ad arrivare al commovente riff finale. I cambi improvvisi anche qui non mancano, ma ha una struttura canzone per cui a volte lamenta la mancanza di una voce.
Sweet Caroll and The Dog Sons, invece, se da una parte mette il mostra il lato più funk della band come non avrebbero saputo fare neanche gli And So I Watch You From Afar, dall'altra è sicuramente il pezzo prog meglio riuscito. Nel giro di pochissimo alle aperture melodiche alla 65DOS all'headbanging ad una bellissima rullata di batteria che una chitarra degna dei momenti migliori di Blood Sugar Sex Magic. Poi accordoni e via, si riparte con un po' di dance, fino a riconnettersi al riff iniziale. Superb.
Black Owl è il pezzo che mi ha meno appassionato, anche se devo ammettere che è uno dei meglio coesi. Devo però ammettere che il riff in crescendo a 1:30 mi fa impazzire, anche se penso che sia penalizzato dallo stacco che segue.
Su From That What You Say, in parte, mi sono già espresso. Il riff iniziale è stupendo. Il testo forse non vuol dire nulla, però è anche giusto che qualcuno vada oltre al caro vecchio Kobain. Perché dovrebb'essere gay solo Dio? Lo siamo tutti!
Enfisema mi piace per la batteria storta. Ritmicamente, è un capolavoro. Mi pesano un po' i giri armonici, non mi piace invece il riff finale, trovo che non abbia sapore. Alcune intuizioni, però, mi fanno intravedere l'idea di questa band alle prese con alcune soluzioni di un certo jazz alla Zu. Mi auguro in un futuro non troppo prossimo.
Per concludere, MutterAuto: la hidden track. Una stonerata con riff dissonante e tagliente, inesorabile, lancinante: proprio ciò che mancava fino ad adesso. Ottima scelta, posizione perfetta.

Per concludere, vorrei dire che questo potrebb'essere probabilmente il peggior disco che i Mothercar faranno nella loro carriera, e credo di avere abbastanza intuito per affermarlo. Questo album è pieno di così tante buone intuizioni che, per i presunti “artisti” normali, di solito bastano a riempire 5 o 6 dischi. Lamenta solo non una certa inesperienza, perché la band è sicuramente in ottima forma, ma ancora alcune pecche nel songwriting che fanno parte dei rischi di chi, come i Mothercar, cerca di esplorare delle nuove sonorità. I suggerimenti, del resto li ho già indicati: lasciare perdere certe soluzioni armoniche, utilizzare quella stupenda voce con maggior criterio e non farsi prendere troppo dalla foga di inserire un cambio improvviso a tutti i costi. Per il resto, un gran bel lavoro. 
Cari Mothercar, avete le potenzialità tecniche ed un bagaglio musicale tale che potete sfondare qualsiasi porta vi si trovi davanti, qualsiasi soluzione armonica: che si tratti di tirare fuori un pregevole disco di pop, o una nuova versione di Discipline all'italiana, o di una collaborazione con un'orchestra di ottoni, o di tentare di contaminare con ritmi breakbeat o di soluzioni elettroniche alla Four Tet … fate tutto quello che volete, ma non buttate via il vostro talento: se proprio dovete farlo, almeno uscitevene fuori con della merda così schifosa che vi permetterà di vivere di rendita e produrre musica decente per il resto della vostra vita.
Vi faccio i miei migliori auguri, e buona fortuna!


VOTO: 75

Formazione:

Francesco Borello: Urli, guaiti, voce bassa e basso
Niccolò Boscolo: chitarra elettrica
Andreas Ciavarra: batteria & pentolami vari assortiti

sabato 11 ottobre 2014

3Teeth – 3Teeth









Passano le giornate, le settimane, talvolta anche i mesi, eppure il nulla.
Sfondo una porta aperta del grande mondo della ricerca dei dischi (senso figurato?).
Fingiamo che l'ottimismo come sempre regni sovrano e infatti, poi.... si salta sulla sedia, folgorati, amore a primo orecchio. Respiro. Calma. Razionalità.
Si lascia decantare, si riascolta, la conferma del sentimento: era vero.
Quattordici tracce, scorrono come coperte di vaselina su uno scivolo di burro, a patto che le orecchie siano rodate: stiamo comunque parlando di industrial (americano, ndr), il crodino lo lasciamo ai gorilla televisivi.
L'album è ben strutturato, omogeneo, non divaga, non è monotono ed è coerente, le tracce lavorano divinamente nel loro insieme, non si può chiedere di più. Vi farà muovere il cranio, volenti o nolenti, complice la meccanicità delle tracce che sembrano quasi lambire versanti EBM e nel contempo strizzare entrambi gli occhi alla chitarra. Quest'ultima vi abbraccerà e strozzerà allo stesso tempo: miracolosamente morbida nella sua ruvidezza, mentre la voce vi graffierà con potenti artigli di ferro.
Una cosa è certa, non è un album ingenuo, non esita mai, sa sempre dove e come colpire, nulla è lasciato al caso e, laddove le idee non scarseggiano, i colpi vanno a segno. Lo studio a monte è decisamente palpabile i suoni non sono né moda, né nostalgia, direi più un'azzeccata contemporaneità sapientemente miscelata.
La qualità della registrazione è all'altezza, potete infilarlo in qualsiasi amplificatore che nessun operazionale, nessun transistor e nessun woofer si metterà a piangere, forse vostra sorella che si trucca si.
Lo sto elogiando si, ma insomma, questo album è una iena addomesticata, mi diventa impossibile non rimanerne affascinato.
Cambiamo ambito sensoriale, veniamo alla vista: lato molto ben curato, anch'esso non lasciato all'incertezza, espliciti e apolitici messaggi anti-governativi misti a scenari apocalittici, caratteri glitchati, nulla di mai visto ma nulla di mal fatto.
Non è abbastanza? C'è anche l'album di remixes che non recensiamo ma che consigliamo, materiale valido.


Links:

lunedì 6 ottobre 2014

Infant Annihilator - la band più stupida del mondo

Il titolo del post dice tutto.
Per lo meno, la consolazione è che le nuove leve di metallaroni pare che abbiano almeno il senso dell'umorismo.


La canzone più cattiva del mondo

Forse qualcuno di voi si ricorda ancora dei Bring Me The Horizon: uno dei pochi gruppi che faceva blblblblblbl GROOOWL blblblb AAAAAAAAAAAW che hanno saputo rinnovarsi a tal punto di album in album da essere arrivati ad inciderne uno - l'ultimo - a loro detta ispirato agli Explosions In The Sky.

Una loro canzone è stata presa di mira dagli Infant Annihilator, la band più stupida e cattiva del mondo allo stesso tempo.
Hanno vent'anni ma molta, molta cattiveria.
Il growl finale è a dir poco sconcertante.
BUON ASCOLTOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOORRRGH


La versione più bella del mondo



Stairway To Heaven è una delle canzoni più emulate di sempre: si calcola che fino ad oggi il pezzo abbia venduto oltre un milione di spartiti. Se teniamo anche conto di come sia statisticamente provato che solo un chitarrista su cento sappia leggere decentemente un pentagramma (sempre che sappia cosa sia, faccio un esempio: Jimi Hendrix), si può dire che almeno la metà dei chitarristi dagli anni settanta ad oggi si sono cimentati nell'impresa di apprenderla.
Ah! Quante volte abbiamo dovuto fare leva sui nostri nervi calmi, quante volte abbiamo dovuto sopportare lo stupro di quella melodia.
 Durante gli anni del liceo, al concerto dell'amico del nostro amico, o alla festa di paese dove il padre del cugino di quello che abita di fronte a quello che usciva con la compagna di classe, nonostante i suoi capelli (pochi) bianchi e unti e le dita raggrinzite, quell'ennesimo padre che voleva giocare a fare il rocker sul solo di Stairway To Heaven!
E quante volte il cantante non andava bene, stonava, o era persino troppo simile all'originale da privarlo di tutte quelle imperfezioni che ci piaceva tanto.
 Quante volte quella canzone mancava di personalità nell'esecuzione, quante volte i musicisti erano troppo poco disinvolti ed appassionati e ci siamo chiesti “perché, perché, perché?”. Quante le versioni jazz inutili?
Ed anche i nostri idoli, a deluderci: quanti artisti famosi si sono impegnati in quell'inutile impresa, quando quel pezzo, nella versione in studio, era così impeccabile, che neanche gli stessi Led Zeppelin sono stati mai capaci di emulare sé stessi: soprattutto Plant, quel balordo, che tra un eccesso e l'altro aveva una voce così imprevedibile da costringersi a sostituire l'esecuzione con "l'interpretazione" o Page, quel tossicone, che si fumava in faccia la sigaretta proprio sulle note più importanti.
Ah, quante delusioni, inutile! Avevo deciso che non avrei più ascoltato una sola versione di Stairway To Heaven, se non quella, la sola, la unica, l'originale.

Tutto questo, fino a quando non ho scoperto che c'avesse provato anche Frank Zappa.

Credo che la versione a cui faccio riferimento sia quella contenuta nell'album The Best Band You've Ever Heard del 1988. Il concerto si conclude proprio con una versione di Stairway To Heaven e, del resto, una versione così è proprio degna della Miglior Band Che Abbiate Mai Sentito.

 
Complice una sezione di fiati veramente da urlo, la canzone si barcamena su un'ironica reinterpretazione free raggae con cambi di tempo ed imprevedibili schitarrate zappiane fino al famoso cambio centrale. Fino a qui, tutto sommato, le due versioni si somigliano abbastanza, ma già si nota che l'intento artistico di rivisitare il pezzo, arricchendolo di nuovi inaspettati elementi, primo su tutti il caratteristico, jazzistico, timbro baritonale della voce di Zappa.
Dopo il Cambio, accade il miracolo.
 Il fraseggio di chitarra introduce un'accelerazione improvvisa e le trombe prendono il sopravvento. Sono loro? Sì, CAZZO! è proprio la sezione di fiati! Gli ottoni suonano ESATTAMENTE quel solo di chitarra senza uno sbafo e sììììììì anche la frasetta velocissima! Ed a quel punto spunta la chitarra di Frankie, trionfante, che riempie proprio su quella parte che, per mancanza di organico, Jimmy Page non ha mai potuto eseguire dal vivo.
Il vecchio Frank le aveva proprio pensate tutte. Quando ci sentiamo già totalmente appagati, la canzone accelera di nuovo, prende la voce un negretto con un groove demoniaco e canta il ritornello finale come Plant non è mai riuscito in vita sua. Il cambio che ne segue è prog puro, con la batteria che suona forsennata seguendo i cambi della chitarra di quel cronopio di Zappa, fino alla grande frase finale “Annnnd She's Buuying a...Staaaairwaaaay...to Heaveeeeeen”, armonizzata con un coro degno dei migliori Crosby Stills Nash & Young.
Pensate che sia finita qui, eh? Ma la conclusione...la conclusione è puro genio, è ancora più geniale, ma non vi anticipo più nulla. 10 e Lode!



Tra il metafisico ed il sublime


Non ho potuto fare a meno di notare come i Noise Trail Immersion rappresentino il tentativo odierno più riuscito di ravvivare la poetica tardoromantica, unendola sapientemente con la loro passione per la chanson troubadour, ed in particolare di Bertran de Born.
We Are Sleeping (Nous Dormons) è una splendida canzone d'amore dai toni autobiografici, in cui il protagonista, parlando di sé stesso in terza persona, racconta la malinconia per la perdita della donna amata, da cui l'attende l'ineluttabile separazione.

Nella settima strofa, all'incirca tra il 34esimo cambio di tempo da 7/8 al 19/32, si evince chiaramente la sofferenza del distacco dall'amata, evidenziato da una splendida rima alternata:

“BBAURGH REEEMB WOOSH BLEEEGH
KRUSH BLEEEEEERRRGH KNAF WREEESSHHHH
BZAAR BROOOOOGH REEESH RAEEEGH
BLOOOOGH DGRAAASS WEF BEEEEEEEEEESH”
Segue, non per importanza, né per bellezza, la splendida anastrofe sul 57esimo bridge:
“GRUUUUUM WAAAAAAAAAAAAAAA KLEEE”

Per non parlare  della romanticissima allusione alla caducità della vita, nel crescendo finale
“DRAAUGH ROARRRRR BLEEEEGH”

sottolineato dallo schizzo di vomito che parte dal canino destro del cantante a 3:09.

La tragedia è sapientemente attualizzata alle tematiche contemporanee e racconta della separazione obbligata dalla crisi economica, per cui le speranze proprie di un amore giovanile si rompono sul nascere: la giovane fiancé finirà per partire, in seguito all'assegnazione di un posto di lavoro all'estero.

Il sonno rappresenta la nostra condizione attuale: mentale e fisica.
 Il sonno è lo stato di colui che crede di innamorarsi sugli incontri online, di vivere su facebook, ma anche di chi spende una vita seduto, per poi imparare a fare un lavoro seduto, davanti ad un altro schermo.
Il sonno è anche paralisi, inerzia, impossibilità. L'impotenza di chi non può fare nulla per migliorare il proprio futuro, obbligato da una crisi economica imposta da autorità inscrutabili ed irraggiungibili, e che non lotta più contro niente, non sapendo più contro chi lottare.
Il sonno, forse, è l'unica speranza per chi sia obbligato ad ingoiare ogni pillola di questo supplizio, anche a sacrificare le proprie passioni, pur di continuare a rimanere a galla.